Bellezza e tragedia in un cesto di frutta. Una riflessione sulla Canestra di Caravaggio
Temporaneamente in mostra al Palazzo Mazzetti di Asti, la celeberrima Canestra di frutta di Caravaggio è un punto di svolta nella storia dell’arte. In mezzo a pesche e grappoli d’uva, si nasconde una sapiente regia pittorica che intreccia vita e morte
Alla fine del XVI Secolo, Caravaggio (Milano, 1571 – Porto Ercole, 1610) dipinge la Canestra di frutta, oggi in permanenza presso la Biblioteca Ambrosiana: un’opera di quelle che cambiano il corso dell’arte e della storia della figurazione. In epoca greco-romana le canestre piene di frutta erano dipinte, a fresco, nelle case aristocratiche, per comunicare agli ospiti le condizioni di agiatezza e di opulenza dei proprietari. Nei secoli successivi, mai un cesto di frutta costituì il nucleo argomentativo e drammatico di un’opera pittorica. Michelangelo Merisi (detto Caravaggio) fu un genio compreso e quest’opera è stata fin da subito un capolavoro compreso, come raramente capita nella storia dell’arte. Generalmente i capolavori complessi come questo dispiegano il proprio significato e l’intimo senso della narrazione del corso dei secoli: gli affreschi di Piero della Francesca sono stati compresi dopo ben cinque secoli. Il cardinale Borromeo, vista l’opera a Roma, decise immediatamente di acquisirla e la pose in mezzo a Madonne e raffigurazioni a tema cristiano, aprendo così la narrazione ad un simbolismo religioso dell’opera. Interpretazione, questa, che giustifica soltanto l’acquisizione dell’opera da parte di un prelato ma che non rappresenta il reale momento interpretativo della stessa.
Il significato della Canestra di frutta di Caravaggio
L’opera si presenta con il fascinoso realismo proprio del Caravaggio, immediatamente attirando sugli oggetti (la frutta e le foglie) l’attenzione dell’osservatore. Subito dopo l’occhio si ferma sull’intreccio del midollino della cesta, che costituisce l’unico elemento dotato di spazialità. Da ultimo emerge potentemente l’infinita profondità del fondo, dall’indefinibile colore e dall’immensa capacità di contenimento. Si tratta di un’opera che rappresenta con estrema chiarezza la tematica cara all’artista, quella della coesistenza nella vita di ogni individuo, di morte, di bellezza e tragedia. La frutta, posta dal Caravaggio nella cesta, presenta al contempo splendore e degenerazione, le foglie partendo da sinistra, andando verso destra nell’ottica dello spettatore, presentano vitale vigoria, malattia e morte, fino a giungere all’ombra che ricorda le memorie delle vite passate, i fantasmi di esistenze che furono. La Canestra, ben sostanzia la trasfigurazione pittorica del concetto filosofico del cotidie morimur e non, come vorrebbero certi chierici interpreti, del memento mori. Nessun memento mori, in quanto la consapevolezza dell’esistenza convive con la morte e non ne consente mai la dimenticanza.
I tre ossimori della Canestra di frutta
L’osservatore si trova di fronte a un’opera tre volte ossimorica. È un’opera statica e cinetica. Va conservata nella memoria in modo statico ma va osservata e interpretata in movimento, come in un film. Si potrebbe dire che si tratta della prima opera cinematografica. Essa inizia dal profondo nulla, nello sfondo a sinistra e prosegue con la vigoria delle foglie che conservano ancora l’energia della fotosintesi, continua con la splendida e appetibile frutta che, però, ha in sé la bellezza della forma piena e la tragedia del dismorfismo derivante dalla degenerazione cui deve assoggettarsi ogni essere vivente, dal mondo vegetale a quello animale. L’opera, anzi il film, prosegue ponendo al centro, davanti alla matura e quasi perfetta pesca, foglie già piegate dalla sofferenza della vita a dalla malattia; e poi un epilogo drammatico, gli attori recitano la sofferenza, la decadenza, la morte e più destra ancora il ricordo dell’esistenza da parte dei viventi o forse la possibilità dell’arte di “superare di mille secoli il silenzio”, rappresentando l’ombra come momento della morte o figurazione del filosofico dubbio sulla conoscibilità del mondo reale. Quell’ombra rappresenta l’ade del noumeno o, se vogliamo, il nucleo pittorico che traspare dal metafisico velo nei quadri di Rothko. Il secondo ossimoro sta tra l’apparenza del realismo degli oggetti raffigurati e la profonda astrazione del fondale da cui le immagini emergono e derivano. La superficie delle immagini vive in una dimensione diversa e ultronea rispetto all’intensità del fondo. Solo l’ombra delle foglie sulla destra indirizza e indica la tensione o il passaggio all’infinito di un soggetto finito.
Il terzo momento ossimorico è rappresentato dal “realismo senza spazio” delle foglie e dei frutti e dal realismo spaziale della canestra e dell’appena accennata superficie del tavolo dalla quale essa aggetta. I due momenti di contrasto alludono alla drammatica precarietà della vita e dell’esistenza in ogni momento in cui essa si dispiega.
Caravaggio e la rivoluzione della natura morta
L’opera è oggi visitabile sino al 7 aprile 2024 presso Palazzo Mazzetti ad Asti, in una intelligente mostra che, con estrema chiarezza, dimostra l’influenza di Caravaggio sugli artisti della propria generazione e di quelle successive: fu il Merisi ad aprire la superficie pittorica a nuovi soggetti, sempre privati della figura dell’uomo, ovvero alle cosiddette “nature morte” o still life. Tali rappresentazioni ebbero particolare apprezzamento e diffusione nei Paesi Bassi anche in ragione del maggior senso di laicità di quei popoli. Per lungo tempo le nature morte sono state considerate opere decorative o espressioni di virtuosismo pittorico; oggi, grazie alla grande lezione di Caravaggio, possiamo interpretarle come rappresentazione dismorfica dell’esistenza dei viventi, opere quindi molto lontane dalla definizione di natura morta. Sarebbe forse opportuno modificare la tassonomia in “natura vivente con morte in sé”.
Parafrasando Manzoni e riferendosi al Merisi, possiamo dire che raramente “orme di piè mortali” simili a quelle dell’artista di Caravaggio si sono impresse e potranno imprimersi sulla superficie terrestre.
Giuseppe Simone Modeo
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