Il Reggio Parma Festival celebra la grande coreografa Maguy Marin
Il noto festival di danza e teatro ha omaggiato alla rivoluzionaria coreografa francese Maguy Marin che, con il suo ultimo lavoro, ha saputo mostrare il nervo scoperto della società occidentale contemporanea
“Il pubblico non va educato, semmai diseducato”: ricordiamo la risposta pacata ma stupefatta sbattuta in faccia dalla coreografa francese Maguy Marin (Tolosa, 1951) alla cronista preposta alla presentazione del festival La passione dei possibili voluto e organizzato dal Reggio Parma Festival. Una grondante esperienza/sapienza lunga quasi quarant’anni di lavoro, di cui venti di ricerca, contro l’innocente ma diffusissima credenza, ancora crociana, che il teatro sia un luogo “didattico”, dove s’impara qualcosa e si torna a casa con la coscienza a posto per aver “capito” un racconto, una storia, persino un’inconsapevole bugia. Simili premesse che nulla hanno a che fare con il teatro di ricerca e con gli artisti che lo praticano, ben poco interessati a compiacere il pubblico, non potevano lasciare dubbi sull’accoglienza esterrefatta riservata a Deux Mille Vingt Trois (2023). L’ultima creazione di Marin, con debutto alla Maison de la Danse di Lione e di seguito, sempre in novembre, alla Cavallerizza di Reggio Emilia, avrebbe dovuto essere il cuore pulsante della distesa rassegna emiliana (settembre-dicembre). Invece ne è stata la spina nel fianco. Certo, la pièce di oltre un’ora e mezza non è stata investita da urla e strepiti come accadde, nel 2009, a Description d’un combat – magnifica Iliade con acconci costumi, interpreti per lo più a terra a recitare il poema epico in mille lingue –, bensì da viscidi e silenziosi dissensi. Forse perché la posta in gioco era apparentemente meno artistica e più politica.
Di cosa parla la nuova opera di Maguy Marin?
In Deux Mille Vingt Trois tutto ha inizio con un muro che crolla. Inutile pensare a Palermo, Palermo di Pina Bausch. Su ogni mattone della parete è iscritto il nome di un imprenditore malandrino, di un presidente di stato poco innocente, di un magnate della finanza dalle mani sporche. Per di più la data del crollo del muro di Berlino, il fatidico 1989, ha coinciso con l’irrimediabile divisione tra Occidente e Oriente, tra democrazia e comunismo in un senso geopolitico ormai alquanto incerto e traballante e che tuttavia Marin, sottobraccio a Walter Benjamin ma soprattutto a Olivier Neveux, professore di storia ed estetica del teatro a Lione, non lascia svaporare. La coreografa è, però, soprattutto immersa nello sforzo di inondarci d’informazioni – vere, false, chissà, ma qui sta il bello anche ironico della pièce – tutte volte a sostenere un’unica tesi: il nostro essere manipolati dai media, la nostra assuefazione agli influencer e, naturalmente, a chi detiene il potere. Una volta caduto il muro, ci crolla addosso un fiume di parole dette al microfono da voci varie e pure registrate; il paesaggio è un campo di battaglia, spesso oscuro e dalle luci fioche, ma i televisori, grandicelli, illuminano benissimo volti e figure degli illustri protagonisti.
Il nipote di Freud che ha ispirato l’opera “2023” di Maguy Marin
Curiosa e vera-verissima, la storia del nipote di Sigmund Freud, il pubblicitario statunitense Edward Louis Bernays, uno dei primi a commercializzare la psicologia del subconscio dello zio per manipolare l’opinione pubblica. Lo fece con le sigarette, offerte alle donne in segno di emancipazione e con bacon e uova sbattute, spacciate per la più salubre colazione del mondo; ecco due soli esempi dei suoi metodi raccolti in un libro-manifesto intitolato Propaganda, tuttora assai diffuso. Lo snodo degli affaire, di solito equivalenti a lavori pubblici innalzati a beni (fallimentari) per la collettività, in realtà grandi ricavi solo per i loro esecutori, prosegue a ritmi regolari. Tale scansione consente alla Marin il passaggio in proscenio di una serie di on’nagata del Teatro Kabuki: sempre con una mazzetta di soldi in mano ma con colorati e originali costumi e copricapo diversi. Brecht insegna. Poco alla volta tutto si spegne con gli otto giovani recitanti a turno, e a turno sempre impegnati a battere ferri e mattoni rotti per innalzare un muretto (è la martellante musica dello show): alla fine intonano un canto islamico al suono di una chitarra. Senza speranza, irritante: d’accordo. Retorico o didattico: nient’affatto… Quanto sarebbe stato utile per il Reggio Parma Festival un resoconto di Marin sul suo ultimo libro: Toucher au nerf (pubblicato il 20 dicembre da Theâtrales Editions di Lione). In dialogo con il già citato Neveux, la coreografa vi spiega il passaggio al linguaggio e alla parola, ripercorre le sue creazioni per riflettere su questioni ritmiche, coreografiche e politiche. Le sue parole fanno notare la richiesta di un’arte mobilitata dall’urgenza di agire. Lei dice: “La violenza del mondo non si calma; il rischio di adattarvisi è urlare perché fa male, poi urlare perché ci si sente bene”.
Gli altri spettacoli di Maguy Marin
La combattiva Marin di Deux Mille Vingt Trois ha poco in comune con il suo ultimo titolo incastrato, tra i sei presenti, nella vetrina emiliana, anche se Umwelt (“ambiente” in tedesco), presentato al Teatro Due di Parma, non getta una luce benevola sull’umanità, questa volta spicciola, che lo abita. Creato nel 2004, il lavoro vinse, nel 2006, un Prix spécial della giuria del Sindacato della Critica e, nel 2008, un Bessie Award. I suoi nove interpreti sono imprigionati in un dispositivo di pannelli e di specchi che ne scandiscono la vita. Ognuno dei danzatori si presenta, da solo o in coppia, per compiere azioni normali: abbracciarsi, baciarsi, combattere, gettare terra e altro fuori del “recinto” specchiato. Il tutto in un’estenuante passerella che potrebbe non avere mai fine. Se non fosse per un vento dispettoso e irruente che vanifica ogni tentativo anche solo di tenere in ordine i propri capelli, la musica di Denis Mariotte sarebbe l’unico accompagnamento di una routine in cui si cercano contatti umani, ma senza riuscirci davvero, e alla fine tutto appare come un deprimente andirivieni. Tanta quotidianità è priva di senso. Vive e agisce senza passi di danza e senza placarsi mai, in un doloroso, consumistico vuoto pieno di oggetti.
Infine, alla regione italiana che così generosamente ha accolto le sue ultime pièce – da quelle in tournée ancora nel 2024 come l’immarcescibile May B (1981), Umwelt e 2023 ad altre mai passate in Italia, ad esempio Nocturnes (2012) – Marin ha fatto un regalo. Ha destinato all’emiliana MM Contemporary Dance Company il suo beethoveniano Grosse Fugue (2001) e Duo Eden (da Eden 1986), pezzi d’antan di squisita fattura. Tanto per dire bye bye: la coreografia non è di tutti e per tutti quelli che si dicono coreografi; per di più se non si pone domande, non si sfascia, non cambia, muore.
Marinella Guatterini
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