“Così coordino tutti gli Istituti Italiani di Cultura del mondo”. Intervista a Marco Cerbo
Si chiama Marco Maria Cerbo ed ha una lunga storia diplomatica alle spalle che lo ha portato infine alla supervisione degli istituti che promuovono la cultura dello Stivale nel mondo. Lo abbiamo intervistato
Da Bergamo ad Addis Abeba, dove è stato protagonista della restituzione dell’Obelisco di Axum, fino a Hong Kong passando per Roma, Melbourne e Parigi. Poi il rientro in Italia dove oggi è Capo dell’Unità per il coordinamento degli Istituti Italiani di Cultura nella Direzione Generale per la diplomazia pubblica e culturale. Riassunta qui in poche righe è la lunga strada diplomatica di Marco Maria Cerbo, con il quale commentiamo e raccontiamo l’impegno degli Istituti Italiani di Cultura nel mondo, tema da sempre caro ad Artribune. Una rete ancora in espansione che da poco si è dotato di un nuovo luogo di promozione della cultura italiana ad Almaty e in America, a Miami. Ma sono molte le iniziative in corso, le commentiamo con Cerbo in questa intervista.
Partiamo dall’inizio. Ovvero da 25 anni di carriera diplomatica. Come è stata e come si è articolata?
Ho iniziato questa lunga avventura professionale nel 1999, quando ho lasciato Bergamo, la tranquilla città di provincia in cui ero nato e cresciuto, per trasferirmi a Roma dopo avere vinto il concorso che consente di intraprendere la carriera diplomatica.
Avevo venticinque anni quando presentai la mia prima domanda di trasferimento all’estero e ottenni di essere trasferito ad Addis Abeba. Ho trascorso in Etiopia quattro anni formidabili, coronati dal successo di un’operazione complessa sia dal punto di vista diplomatico che da quelli culturale e strettamente logistico: la restituzione dell’obelisco di Axum, portato in Italia come trofeo bellico nel 1937. Le tappe successive del mio percorso sono state Hong Kong, di nuovo Roma, Melbourne e Parigi, da cui sono rientrato nell’estate del 2022.
In che senso in questi 25 anni si è occupato di cultura?
Il ruolo del diplomatico è per natura molto eclettico e nel corso degli anni mi ha permesso di impegnarmi in molti settori diversi: dal controllo del rispetto dei diritti umani in remote regioni africane alle controversie nei tribunali internazionali, fino all’assistenza ai connazionali detenuti all’estero.
Negli anni, ho avuto anche spesso modo di essere coinvolto in iniziative di diplomazia culturale: ad esempio, organizzando ad Hong Kong nel 2006 il programma dell’Anno dell’Italia in Cina oppure dirigendo l’Istituto Italiano di Cultura a Melbourne nel 2016 e 2017. Al rientro da Parigi, sono stato chiamato a occuparmi del sistema della formazione italiana nel mondo, composto da oltre cinquanta scuole in decine di Paesi diversi, e così sono entrato a far parte della Direzione Generale per la Diplomazia Pubblica e Culturale, che ha tra i suoi compiti la promozione della cultura e della lingua italiana.
Come si è verificata la possibilità di ottenere l’incarico di supervisione degli Istituti Italiani di Cultura e della Collezione Farnesina?
Il tema della promozione della cultura italiana nel mondo mi ha sempre affascinato, perché ritengo che la diplomazia culturale sia uno degli strumenti più moderni per costruire relazioni internazionali fruttuose. Dopo l’esperienza nella gestione delle scuole italiane nel mondo, che sono esse stesse un efficace strumento di promozione culturale, mi sono candidato a guidare la struttura che coordina gli Istituti e che amministra la Collezione, sperando di poter mettere a frutto l’esperienza maturata. Sono perciò grato al Ministero per avermi concesso questa splendida opportunità di contribuire a portare nel mondo l’Italia della cultura.
Gli Istituti Italiani di Cultura, con tutti i loro limiti, sono degli strumenti importanti di diplomazia culturale. Ci sia una sua riflessione (anche una sua definizione) del concetto stesso di diplomazia culturale
Un grande diplomatico del passato diceva che non c’è nulla di più internazionale della cultura: un pensiero che condivido, perché le creazioni artistiche parlano un linguaggio universale. Portare nel mondo la cultura di un Paese significa accrescerne l’influenza, migliorarne la reputazione e creare familiarità tra le nazioni coinvolte. In altre parole, significa costruire e rafforzare le relazioni internazionali con lo strumento della cultura.
Ci spieghi meglio.
Oltre a poter contare su un patrimonio culturale unico, l’Italia ha una lunga tradizione nell’utilizzo degli strumenti della diplomazia culturale. L’avvio di questa tradizione risale al Cinquecento, quando i principi si scambiavano in dono oggetti d’arte per rafforzare relazioni dinastiche: il primo esempio documentato è l’invio di un bronzetto raffigurante Mercurio che Francesco I de’ Medici spedì alla corte di Vienna. Nei secoli, la diplomazia culturale si è fatta più raffinata e ha richiesto strutture che operassero in pianta stabile all’estero. L’Istituto di Cultura a Praga, fondato oltre un secolo fa, è la prima di queste strutture create dal nostro Paese. Senza una presenza fissa in molti Paesi del mondo, una seria attività di promozione culturale non sarebbe possibile.
La rete degli Istituti, nata oltre cent’anni fa, è molto ramificata. Quali sono le aree dove bisognerà puntare per completarla? Nei nuovi ruggenti paesi dell’Asia Centrale, ad esempio, c’è stata una nuova apertura lo scorso autunno.
L’apertura di un nuovo Istituto è sempre un evento, perché è la tappa finale di un cammino lungo e complesso, che prevede l’individuazione delle risorse per il suo funzionamento, l’assunzione del personale, la ricerca di una sede e un’articolata serie di adempimenti amministrativi; a questo si aggiunge il dialogo con il Paese che lo ospita e che accetta un presidio culturale istituzionale italiano sul proprio territorio.
Alla fine dell’anno scorso, ho partecipato all’inaugurazione del nuovo Istituto ad Almaty, in Kazakistan, e nel prossimo futuro continueremo a guardare verso Est. I nuovi Istituti la cui procedura amministrativa preliminare all’apertura confido possa concludersi prima dell’estate saranno in Giordania e in Thailandia, mentre, sul fronte occidentale, per l’inizio del 2024 stiamo organizzando l’inaugurazione formale dell’Istituto a Miami, che è però già parzialmente operativo.
In che senso una rete di Istituti in giro per il mondo è un modello superato e in che senso è un modello che ancora risponde alle domande e ai requisiti della contemporaneità?
La rete degli Istituti è piuttosto un modello in continua evoluzione. Come dicevo prima, avere una presenza stabile sul territorio è ormai indispensabile per garantire un’efficace azione di diplomazia culturale. Si tratta di un settore nel quale le relazioni personali sono ancora fondamentali e non possono essere rese virtuali; inoltre, gli Istituti offrono una vera e propria “casa” di riferimento per chi all’estero ama la nostra cultura. Penso che senza la rete la nostra azione promozionale sarebbe azzoppata: del resto, la tendenza globale è quella di puntare su strutture simili anche da parte di Paesi che in passato hanno trascurato questo strumento di soft-power.
Piuttosto, l’obiettivo è quello di rendere gli Istituti sempre più flessibili, per potersi meglio inserire nelle realtà dei diversi Paesi in cui operano (spesso si sottovaluta quanta capacità di adattamento siano necessarie per lavorare ai quattro angoli del globo!) e per essere capaci di attirare più risorse. Spero di riuscire a introdurre qualche novità, già a partire da quest’anno.
Qualche mese fa ero a Istanbul e nella zona del nostro Istituto ho visto musei, gallerie d’arte, fondazioni. Una piccola “museum mile”. Il nostro Istituto però era chiuso pur essendo collocato nella posizione più strategica della città. La sensazione è che ci sia un grande heritage in termini di palazzi, placement, edifici storici stupendi ma che le risorse per attivare tutto questo siano non sufficienti…
Come tutti gli Istituti, anche quello ad Istanbul è aperto normalmente al pubblico tutti i giorni lavorativi dalle 9 al tardo pomeriggio. In occasione di eventi, apre anche la sera e nei fine settimana: ovviamente, però, non ci si può aspettare che gli Istituti abbiano le risorse per garantire orari di apertura simili a quelli delle maggiori istituzioni culturali dei Paesi che li ospitano, come quelle che si trovano in quel quartiere di Istanbul. Peraltro, l’Istituto è sicuramente un punto di riferimento nella vita culturale turca e ha anche un piccolo teatro, che ospita eventi di pregio – un esempio il convegno di archeologia di fine novembre.
Qual è l’Istituto o il gruppetto di Istituti che lei ritiene siano più a regime come funzionamento?
La rete degli Istituti è una rete di eccellenze diffuse. Preferisco guardare a quelle iniziative che possano essere prese a modello per l’impatto che hanno avuto e per le potenzialità di essere ripetute in luoghi diversi. Ad esempio, a dicembre 2023 i concerti di musica barocca dell’Accademia di Santa Sofia in Marocco, la mostra sul presepe napoletano a Madrid o quella immersiva sulla Cappella degli Scrovegni di Giotto a New York. Idee diverse, con finalità parallele e capaci di adattarsi al territorio di riferimento.
Sempre a dicembre, ho partecipato all’inaugurazione nel quartier generale delle Nazioni Unite a Ginevra di una mostra costruita per celebrare l’anniversario della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo: un perfetto esempio di diplomazia culturale, che ha veicolato ai nostri interlocutori internazionale un messaggio importante, cioè l’importanza che l’Italia attribuisce alla tutela dei diritti umani, usando le forme dell’arte contemporanea.
Spesso gli Istituti Italiani di Cultura organizzano mostre in spazi espositivi non adeguati. Forse sarebbe meglio che l’attività espositiva fosse limitata a quegli Istituti che hanno davvero degli spazi espositivi degni di questo nome?
Non credo che gli Istituti debbano restare vuoti: piuttosto, devono proporre un’offerta espositiva che sia valorizzata dagli spazi a disposizione. In Kazakistan, l’inaugurazione del nuovo Istituto collocato in un palazzo con vocazione commerciale è stata accompagnata dalla scelta di esporre illustrazioni a fumetti della Divina Commedia. Inoltre, hanno il compito di creare sinergie con istituzioni culturali dei Paesi dove operano per portare mostre in luoghi sempre più prestigiosi: un esempio recente sono le due mostre su Leonardo e su Caravaggio che sono state recentissimamente inaugurate a Shanghai, in due tra le più prestigiose istituzioni museali della metropoli cinese.
Contemporaneamente, stiamo lavorando per trovare sedi più adeguate a molti istituti e il 2024 potrebbe essere un anno segnato da qualche trasloco.
Instituto Cervantes, Institut Français, Goethe Institut. Quale network di spazi culturali internazionali le sembra interessante e da seguire in questo momento come modello?
Difficile cercare un modello da seguire tra le istituzioni che menzionate e che hanno strutture gestionali molto diverse dalla nostra. Inoltre, Francia e Spagna fanno molta leva sulla diffusione delle loro lingue nei Paesi che ne sono stati colonie. Piuttosto, cerchiamo di creare collaborazioni e sinergie: esiste un network che riunione enti di promozione culturale europei, l’EUNIC, e insieme ai nostri partner abbiamo organizzato molte iniziative e in parecchi casi ne abbiamo anche assunto la guida: un esempio è il Senegal, dove il nostro Istituto ha coordinato un progetto di residenze di esperti europei abbinati ciascuno ad artisti locali, a supporto dello sviluppo digitale delle imprese culturali e creative locali. Stiamo anche negoziando un accordo con Madrid per formalizzare la collaborazione col Cervantes.
Quali saranno le novità del 2024 del network degli Istituti?
Le parole d’ordine per il 2024 saranno progettualità e risorse. Da un lato, vorrei rafforzare la rete di collaborazioni con le più prestigiose istituzioni culturali italiane: nelle ultime settimane ho incontrato Triennale di Milano, Quadriennale di Roma, Aterballetto, Balletto di Roma, Arte In Nuvola, ICCD, Parco della Musica di Roma, Rai Cultura, per citarne alcuni. Inoltre, continueranno gli incontri sul territorio nazionale nel programma Laboratorio Farnesina: l’ultima tappa è stata a Bergamo a novembre, ora toccherà a Bari. In secondo luogo, lavoreremo per fare in modo che la rete degli Istituti accresca la propria capacità di creare connessioni tanto in Italia quanto all’estero e, conseguentemente, di attirare investimenti da fonti diversificate.
Più nello specifico, daremo grande attenzione ai programmi per celebrare alcune ricorrenze importanti, come 750° anniversario della nascita di Marco Polo o il centenario della scomparsa di Giacomo Puccini.
Nel 2024 compie 10 anni il brutto logo degli Istituti. Forse è il momento di dare a queste istituzioni un brand più all’altezza?
Personalmente, non trovo che il logo sia brutto: richiama peraltro un’opera che ha lasciato il segno, la copertina del primo libro d’artista della storia, realizzato da Marinetti all’inizio del secolo scorso. Tutto si può migliorare, ma l’obiettivo non deve essere quello di appagare i gusti estetici che sono in continua evoluzione.
Passiamo alla Collezione Farnesina. È una realtà che abbiamo seguito molto in passato, quali saranno i progetti del suo mandato rispetto a questa particolare raccolta d’arte?
In questo momento una parte significativa delle opere è in transito dagli Stati Uniti al Messico, per l’ultima tappa della “Grande Visione italiana” e da poco sono rientrate al Ministero altre opere che erano state esposte ad Arte In Nuvola a Roma. Due iniziative che hanno permesso di incontrare questa grande raccolta di arte contemporanea anche al di fuori delle mura della Farnesina.
La mostra in Messico durerà fino alla metà del 2024 e sarà un evento centrale nelle celebrazioni per il centocinquantesimo delle relazioni diplomatiche bilaterali, dopodiché dovremo individuare il nuovo formato con il quale potrà essere riproposta all’estero, magari raccontando un tema specifico.
Nel frattempo, la Collezione continua ad allargarsi e il 10 gennaio il Comitato Scientifico quali opere potranno farne parte. La raccolta si arricchirà di lavori di grande pregio, come un Cellotex di Burri, che rientra in un filone sempre più apprezzato della produzione di questo importante artista, e si impegna a contribuire al dibattito sui grandi temi del mondo contemporaneo, come la violenza di genere, con l’ingresso di una significativa opera di Silvia Giambrone.
Che opinione ha della mostra a cura di Achille Bonito Oliva che ha portato in alcune sedi estere una parte della collezione?
Non ho avuto modo di visitare la mostra, ma il riscontro è stato positivo. Mi pare che si possa confermare quanto riportato dalla stampa indiana, in occasione dell’esposizione realizzata a New Delhi: si tratta di una mostra che “dimostra la perdurante vitalità dell’arte come linguaggio della diplomazia”. In altre parole, la Grande Visione Italiana non solo ha portato un’antologia del meglio della nostra produzione del Dopoguerra, ma è riuscita a essere un ponte diplomatico nei luoghi dove è stata esposta – penso ad esempio al Palazzo delle Nazioni Unite a New York, luogo unico al mondo per significato.
In che modo le due entità sotto la sua giurisdizione – Collezione e Istituti – potranno entrare in sinergia?
Con la Grande Visione Italiana, questa sinergia si è già realizzata e alcuni Istituti hanno ospitato opere della Collezione. Come dicevo poc’anzi, quando le opere che ora stanno viaggiando per il Messico saranno rientrate in Italia, potremo immaginare qualche nuova progettualità che consenta di usare di nuovo questo potente strumento di diplomazia culturale.
Massimiliano Tonelli
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