Intervista al cardinale Josè Tolentino de Mendonça del Padiglione Vaticano alla Biennale
Futuro antico incontra il cardinale che sarà responsabile del Padiglione della Città del Vaticano alla prossima Biennale. Si parla di poesia, d’arte e silenzio
Secondo il cardinale Josè Tolentino de Mendonça, prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione dello Stato Vaticano e responsabile del Padiglione Vaticano alla Biennale di Venezia 2024, nel futuro il silenzio verrà dichiarato patrimonio immateriale dell’umanità, che riscoprirà le vie del pellegrinare.
Quali sono i tuoi riferimenti ispirazionali nell’arte? Il riccio e la lumaca. Nel tentare di rispondere alla domanda “che cos’è la poesia?’”, Il filosofo Jacques Derrida ci offre appunto la metafora del riccio che attraversa la strada, qualcosa che ci piacerebbe prendere in mano e comprendere, ma non vi riusciamo facilmente. E poi la chiocciola, che conosce poche cose, ma è legandosi a esse che le conosce. Pensando al riccio e alla chiocciola penso, chiaramente, al silenzio, alla lentezza e all’enigma.
Qual è il progetto che ti rappresenta di più? Puoi raccontarci la sua genesi?
Anche se la mia opera poetica comincia con l’essere pubblicata in volumi separati, e sparsi nel tempo, essa in qualche modo esiste per essere inclusa in un’unica antologia con un titolo invariabile: La notte apre i miei occhi. Mi piace pensare alla poesia continuativa, all’unità che la vita e l’arte intessono anche quando apparentemente si rivestono di stranezza e interruzioni, o di esse non vediamo che frammenti.
Che importanza ha per te il Genius Loci all’interno del tuo lavoro?
Lo spazio ha, naturalmente, una grande importanza, sono tuttavia convinto che anche sul piano estetico vale quella regola che papa Francesco afferma sul piano teologico: il tempo è superiore allo spazio.
Quanto è importante il passato per immaginare e costruire il futuro? Credi che il futuro possa avere un cuore antico?
Più che “passato” direi “storia”. Il passato suona come qualcosa che abbiamo lasciato o di cui si può parlare come scollegato da noi. La storia è ciò che portiamo sempre con noi e ci permette, per esempio, di scoprire che il verbo nascere non è un unicum irripetibile, ma un’esperienza che sta accadendo ora. Noi stiamo assistendo al nostro parto, gemiamo questi dolori e siamo noi stessi il cuore antico che saluta il nuovo e l’inedito.
Quali consigli daresti ad un giovane che voglia intraprendere la tua strada?
Come insegna Rilke nelle Lettere a un giovane poeta, che «nell’ora più quieta della sua notte, frughi dentro di sé alla ricerca di una profonda risposta» e che poi costruisca la sua vita in base a quello che ha ascoltato.
In un’epoca definita della post-verità, ha ancora importanza e forza il concetto di sacro?
Hegel parla dell’epoca moderna sottolineando la scomparsa del bisogno di inginocchiarsi. In contrasto con il pessimismo di quel pronostico, gli esseri umani continuano a essere toccati da una verità maiuscola che li fa mettere in ginocchio. Non credo nella post-verità, bensì nella rivelazione di una verità che ci salva. Ricordo, per esempio, la testimonianza di Etty Hillesum, che nel campo di concentramento si rifugiava nella latrina per potersi inginocchiare. È una testimonianza estrema, ma che parla di qualcosa di inestirpabile dal cuore umano: la sete e la ricerca di Dio.
Come immagini il futuro? Sapresti darci tre idee che secondo te guideranno i prossimi anni?
Cambieranno tante cose, l’essenziale rimarrà sempre lo stesso. Anche con la disseminazione dell’Intelligenza artificiale, della frequenza dell’algoritmo o della robotica, gli esseri umani continueranno a scrivere poesie, a comporre musica, a creare immagini sui quadri come facevano migliaia di anni fa sulle pareti della grotta di Lascaux. Tre idee di speranza: dichiareremo il silenzio patrimonio immateriale dell’umanità; valorizzeremo di più la compassione; riscopriremo le vie del pellegrinare.
Ludovico Pratesi
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