Il nuovo-vecchio realismo
Anche oggi si possono realizzare ed esistono capolavori. Questa constatazione permette di vedere l’intera produzione (e fruizione) culturale, e il suo legame con la società contemporanea, in una prospettiva diversa. Non c’è infatti alcuna maledizione che aleggia sulla creatività.
Quando il capolavoro sposta in avanti l’asticella del realismo, ed è una perfetta declinazione di quale possa essere oggi il rapporto con la realtà intessuto in un oggetto di cultura popolare (e non in un romanzo densissimo e di fatto illeggibile, o in un’installazione talmente complessa che la vedranno in cento persone, e la capiranno in cinque…), beh, c’è di che ripagare tutte le delusioni passate e future. Tutte le volte in cui ci sembrava evidente di aver sprecato il nostro tempo.
The Wire è tutto questo, e molto altro. Probabilmente la più ambiziosa e riuscita serie mai realizzata dalla e per la televisione, prodotta ça va sans dire da quella formidabile fucina di idee e talenti che è stata ed è il canale HBO. In cinque stagioni (dal 2004 al 2008) The Wire, ideata e scritta dallo scrittore David Simon e da Ed Burns, ex giornalista di cronaca giudiziaria del Baltimora Sun, scandaglia un’intera città: Baltimora. Il carotaggio è talmente calibrato e “scientifico” (nel senso del romanzo sperimentale di Zola: un senso aggiornato, pop, ma che ricorda da vicino l’operazione mastodontica dei Rougon-Macquart) da scavare letteralmente strato dopo strato nel tessuto sociale, economico, politico della città più pericolosa e degradata d’America. Così, a ogni livello corrisponde una stagione: il traffico di droga per la prima; il porto e i legami con la criminalità macro e micro nella seconda; le intersezioni tra crimine e sistema politico per la terza; il ruolo del sistema educativo nel determinismo sociale urbano, per la quarta; e infine, il dispositivo mediatico e i suoi addentellati con tutti gli altri livelli, nella quinta e ultima stagione.
Come si vede già a una prima, sommaria e molto schematica ricognizione, il livello di complessità è molto elevato – elevatissimo, inconcepibile per la rudimentalità e l’infantilismo della fiction televisiva italiana (almeno quella che ha costellato e caratterizzato gli ultimi dieci anni). Eppure, questa complessità non si fa mai complicazione, e non è mai didascalica. Come nella miglior tradizione noir, letteraria e cinematografica, il fattore umano è preponderante. La serie è animata da una coralità di personaggi che intrecciano le loro vicende, che appaiono scompaiono e ricompaiono, e che compongono l’affresco maestoso della società americana (e occidentale) all’inizio del XXI secolo. L’umanità consiste per lo spettatore nell’ambiguità fondamentale di ogni personaggio – principale o secondario -, nell’impossibilità di decidere quale sia la sua esatta posizione all’interno di questo universo. Come nella realtà, è impossibile stabilire con esattezza chi siano i buoni e i cattivi. Come ha scritto John K. Galbraith ne L’economia della truffa, “ho imparato che, per essere giusti e utili, bisogna ammettere che le opinioni condivise, che altrove ho chiamato ‘sapere convenzionale’, sono altra cosa dalla realtà; e che, non sorprendentemente, tra le opinioni e la realtà ciò che conta, alla fine, è la seconda”.
E come ha affermato, ad esempio, lo stesso David Simon a proposito della seconda stagione, The Wire è “a meditation on the death of work and the betrayal of the American working class … it is a deliberate argument that unencumbered capitalism is not a substitute for social policy; that on its own, without a social compact, raw capitalism is destined to serve the few at the expense of the many”.
L’affresco è tanto più prezioso, per noi, proprio perché fotografa la loro e la nostra civiltà un attimo prima del disastro: prima della crisi, rintracciando con precisione e spietatezza le cause profonde che hanno portato un intero sistema politico-economico al collasso. E, in effetti, la visione dell’intera serie risulterebbe estremamente istruttiva e illuminante per tutti, soprattutto per la classe dirigente: perché Jimmy McNulty, Cedric Daniels, ‘Bunny’ Colvin, Rhonda Pearlman, , Lester Freamon, Tommy Carcetti, Kima, Carver, Bubbles e tutti gli altri hanno moltissimo da dirci, se solo sapremo ascoltarli, comprenderli. E conoscono la soluzione al Problema dei Problemi, ovvero: ce la faremo a sfangarla? Come si fa a trasformare positivamente, a ricostruire un contesto allo sbando?
Christian Caliandro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #7
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