Non solo le biblioteche: dobbiamo ripensare anche gli archivi
Il settore archivistico vive oggi una stagione che, fatte le dovute distinzioni, ricorda molto da vicino il momento di sostanziale ripensamento del ruolo e della funzione delle biblioteche di pubblica lettura
Così come le biblioteche, gli archivi sono oggi chiamati a scrollarsi di dosso quella “polvere” che l’immaginario collettivo attribuisce loro. Tale processo necessita di una sostanziale apertura al dialogo verso l’esterno, una progressiva rimodulazione della normativa in essere, e una direttrice di sviluppo che identifichi in modo chiaro e facilmente comunicabile quale debba essere il ruolo dell’archivio nella nostra società contemporanea, e nella futura società che stiamo contribuendo a costruire.
Sia chiaro: il settore bibliotecario è ancora lontano dall’aver conquistato tutti gli ambiziosi obiettivi che si è posto. Ciononostante, è percepibile una sempre più diffusa consapevolezza sul ruolo della biblioteca di pubblica lettura, così come è percepibile la progressiva affermazione di una nuova cultura bibliotecaria, volta alla creazione di valore pubblico, e alla costruzione di strumenti, servizi e prodotti che integrino le tradizionali attività alla luce di una rinnovata interpretazione del ruolo che tali soggetti possono e devono rivestire all’interno del territorio.
Pur trattandosi di un processo che è ancora agli inizi, quanto raggiunto dal settore bibliotecario rappresenta un risultato epocale cui il settore archivistico dovrebbe guardare con attenzione. L’affermazione di una rinnovata cultura bibliotecaria, che oggi è visibile in quasi tutto il nostro Paese, è il culmine di un processo che ha richiesto molto tempo, e che ha incontrato, nello stesso settore bibliotecario, molte resistenze.
Biblioteche e archivi tra sfide e opportunità
Il lento superamento di tali resistenze, biblioteca dopo biblioteca, Comune dopo Comune, ha creato le condizioni che hanno concesso quantomeno l’avvio di una riflessione più strutturata e seria sul futuro del settore. È trascorso molto tempo prima che le idee dei primi pionieri iniziassero ad essere sempre più condivise dall’intero settore.
Si tratta di una sfida che è facilmente rintracciabile anche nel settore degli archivi e ne è la riprova la valenza ancora tutta contemporanea di affermazioni postulate ormai più di 15 anni fa. Si pensi, ad esempio, ad alcune delle affermazioni contenute in un saggio di Valacchi e a come tali affermazioni ricordino, molto da vicino, osservazioni che a metà dello scorso secolo, venivano rivolte al settore bibliotecario: frasi come “Occorre acquisire la consapevolezza che svolgere bene i compiti di natura squisitamente tecnica e scientifica (riordino, descrizione, realizzazione di strumenti di accesso) non esaurisce la missione dell’archivista”, o “La percezione degli archivi che il senso comune continua a recepire non si allontana infatti quasi mai dall’immagine ormai cristallizzata di polverosi templi della memoria, destinati alle celebrazioni di riti per iniziati ma tendenzialmente inaccessibili ai più”, raccontano più di ogni altra riflessione alcuni terreni di sovrapposizione. Sovrapposizione che, tuttavia, non deve nemmeno tendere ad acquisire una completa generalizzazione: tante sono le diversità che distinguono i due settori, e tanti i livelli in cui tali diversità si manifestano. E la prima di tali diversità riguarda inevitabilmente proprio quel ruolo e quella funzione che gli archivi devono rivestire oggi e nel futuro.
“L’archivio è dunque quel luogo in cui da sempre si esprime quel processo di ‘trasformazione produttiva’ che accoglie la materia prima del dato, e la trasforma in quel semilavorato che è il contenuto”
Quali strade possono percorrere gli archivi?
La nuova cultura della biblioteca ha trovato una sintesi nel concetto di accesso alla conoscenza, estendendo i perimetri di tale concetto superandone i connotati più prettamente fisici, e facendo rientrare, all’interno del concetto di accesso alla conoscenza, anche l’insieme di attività, prodotti, competenze e servizi che rendano la conoscenza e la cultura pienamente “accessibile”.
Gli archivi possono solo in parte ripercorrere tale strada, e soltanto nelle sue dimensioni più prettamente concettuali: il rischio, altrimenti, sarebbe quello di replicare pedissequamente le operazioni già svolte dalle biblioteche, uniformando la propria offerta a quanto presente nel territorio.
Né gli archivi possono il rischio di snaturarsi, rinunciando ai tratti caratteristici del ruolo che storicamente hanno ricoperto per rincorrere una generica apertura al pubblico.
E di nuovo si mostrano ancora del tutto attuali le riflessioni di qualche tempo fa sul ruolo degli archivi: “Il minimo comune denominatore su cui modellare questo tipo di approccio alla gestione degli archivi storici è con ogni probabilità quello di un potenziamento delle strategie di comunicazione dei valori dell’archivio, ancor prima che dei suoi contenuti”. Approccio che, a ben vedere, dovrebbe imporre un ripensamento dell’archivio già nei suoi aspetti definitori, superandone il valore ontologico (complesso di documenti prodotti o comunque acquisiti…) ponendo in luce il valore più prettamente funzionale.
Gli archivi come trasformazione di conoscenza
Nella distanza tra la dimensione documentale e l’insieme di tecniche che permettono l’estrazione di conoscenza da una serie di fonti, risiede il tratto più prettamente contemporaneo degli archivi. Una distanza che, con altri lessici e in altri domini della conoscenza, misura la differenza tra dato, informazione e conoscenza che è alla base dei processi di creazione di contenuti digitali, di intelligenza artificiale, di verifica delle fonti che sono al centro di molti dibattiti culturali.
L’archivio è dunque quel luogo in cui da sempre si esprime quel processo di “trasformazione produttiva” che accoglie la materia prima del dato, e la trasforma, attraverso specifiche azioni, in quel semilavorato che è il contenuto. È l’insieme di pratiche, strumenti, prassi e processi standardizzati, che permette di trasformare estratti documentali in memoria collettiva, in conoscenza del passato.
Una conoscenza che, in alcuni casi, permette di indagare aspetti che spesso vengono trascurati dai manuali, e che invece negli ultimi anni hanno acquisito sempre maggiore interesse: temi come la public history o la public archaeology, che aprono lo sguardo sulle condizioni di vita delle persone normali che hanno vissuto prima di noi, e che si mostrano estremamente coerenti con quel processo di spettacolarizzazione dei cittadini che dalla nascita di Facebook in poi ha fornito un posto in vetrina per persone che, nel sistema apicale di selezione dei contenuti che dal Novecento in avanti la nostra società aveva adottato a modello di riferimento, mai avrebbero potuto raggiungere un numero così ampio di “propri simili”.
Risemantizzare gli archivi
Sono tante le direttrici che, in questo senso, gli archivi possono seguire per poter riaffermare la propria validità agli occhi di coloro che mai hanno nutrito un interesse nei loro confronti. Tra di esse, la possibilità di esaltare la quotidianità del passato, la capacità di poter valorizzare le storie delle persone comuni, nella loro più fitta autenticità. La possibilità di rintracciare le storie delle persone indagando le dimensioni più concrete della loro esistenza (contratti, cambiali, diari, informazioni anagrafiche). Azioni che richiedono un’apertura tra gli archivi, e tra gli archivi e le altre istituzioni culturali, e ancora tra gli archivi, le imprese, gli enti del terzo settore e i cittadini. Una strada che passa attraverso numerosi cambiamenti: culturali, giuridici, tecnici e politici e che per proprio per questo presenta non poche difficoltà. Motivo per cui quella sete di rinnovamento degli archivi deve essere sempre più alimentata, favorendo un dialogo e una progettualità che sappia declinare gli archivi stessi all’interno della vita quotidiana di quella ancora grandissima fetta di popolazione che, degli archivi, non ha quasi mai sentito parlare.
Stefano Monti
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