Intervista a Binta Diaw, l’artista che crea installazioni coi capelli
Finalista del MAXXI Bulgari Prize 2024, Binta Diaw è una giovane artista italo-senegalese che si sta facendo sempre più notare per le sue opere che intrecciano politica, identità e questioni di genere
Le opere di Binta Diaw (Milano, 1995) hanno tutto per essere apprezzate e celebrate dal sistema dell’arte odierno. La ricerca dell’artista si inserisce in un filone che tenta di leggere il mondo contemporaneo, insieme ai suoi fenomeni e alle tematiche più urgenti, come i movimenti migratori, le questioni di genere, il femminismo. Un filone oggi ampiamente rappresentato nei contesti espositivi principali come biennali e altre rassegne internazionali.
La pratica di Binta Diaw, tuttavia, non è da leggere esclusivamente alla luce di un’adesione a temi di forte attualità. Le sue opere non sconfinano mai nella cronaca; al contrario, dimostrano di avere radici ben salde nella storia dell’arte e delle immagini. In soli pochi anni di lavoro, Diaw ha dato prova di saper costruire un solido bagaglio simbolico e iconografico che parte dall’impiego di materiali organici come la terra per arrivare a elementi artificiali come i capelli sintetici utilizzati per le extension. Tutto concorre alla creazione di opere di forte impronta installativa, capaci di “prendersi” gli ambienti che le accolgono, giocate sulle tensioni tra orizzontalità e verticalità, tra naturale e artificiale.
Gli interventi dell’artista italo-senegalese riescono così a connettere in modo coerente geografie e riferimenti visivi disparati, all’intersezione di storie e latitudini che possono apparire agli antipodi, al centro delle quali Diaw inserisce il proprio sguardo di “donna nera in un mondo eurocentrico”, come lei stessa afferma.
Intervista a Binta Diaw
Il tuo lavoro è animato da una tensione politica pulsante. C’è una ragione particolare che ti ha spinto in questa direzione? Un’esperienza, un aneddoto, un incontro vissuti in prima persona che ti hanno orientato?
Rifletto molto sulla contemporaneità e, di conseguenza, sia sul passato, sia sul futuro. Queste tre temporalità, messe in relazione al corpo, sono le fondamenta della mia pratica artistica. Non ci sono ragioni particolari per cui sto seguendo queste direzioni, ma posso dire che di base c’è senza dubbio un’incessante volontà di sperimentare con il pensiero, la critica, la curiosità e la riflessione attraverso la materia, altra essenza del mio lavoro.
Le opere che realizzi sono inestricabili dalla tua biografia, legata sia all’Italia, sia al Senegal. Mi piacerebbe capire anche se, come credo, la tua pratica è alimentata da riferimenti di carattere più strettamente artistico. Ci sono autrici e autori a cui guardi o hai guardato in modo particolare, anche solo come attitudine e approccio, al di là dell’aspetto formale?
Sì, alcune opere sono strettamente connessa alla mia biografia – alle geografie che mappano la mia vita –, ma ritengo sia anche importante la ricerca da un punto di vista formale. Amo osservare, analizzare con lo sguardo, navigando oltre la superficie. Per questa ragione, apprezzo molto le artiste e gli artisti che sono riusciti a raccontare degli eventi storici o semplicemente l’esistenza e la relazione tra essere umano e natura attraverso la loro arte in maniera poetica, ma al tempo stesso critica. Amo molto la semplicità e la simbologia dell’Arte Povera, alcune correnti eco-minimaliste americane, il movimento giapponese Mono-ha. Molte volte sono gli scrittori a ispirarmi nella creazione.
Nonostante la giovane età, il tuo lavoro ha già avuto riconoscimenti significativi: mi riferisco alla recente partecipazione alla Biennale di Liverpool, alla mostra personale che ti è stata dedicata al Magasin CNAC di Grenoble e alle diverse collettive a cui hai preso parte. Sei anche rappresentata da un’importante galleria italiana e, proprio mentre stiamo facendo questa conversazione, è arrivata la notizia che sarai tra i finalisti del MAXXI Bulgari Prize 2024. Come valuti la tua condizione di “giovane artista” – utilizzando un cliché linguistico – in Italia?
Essere giovane artista in Italia è una grande sfida. È complesso perché ti devi fare strada aprendo le porte da sola. Alla base trovo sia determinante formarsi e creare una pratica artistica solida, fin dagli esordi, in modo da poter suscitare la curiosità di chi ti osserva. Purtroppo, è evidente e palpabile la mancanza di supporto da parte delle istituzioni, che in Italia sono perlopiù private. Detto ciò, non generalizzo perché ho avuto modo, nel corso degli anni, di lavorare con spazi e realtà italiane molto conosciute su scala internazionale.
Sicuramente i miei studi all’estero e il contatto con realtà artistiche contemporanee mi hanno dato una base, spingendomi a credere in questa professione.
Come ti sembra sia la situazione in generale nel Paese, anche in relazione alle esperienze dei tuoi coetanei?
Penso sia difficile parlare dei miei coetanei. Ognuna e ognuno ha un proprio percorso, con obbiettivi e aspettative differenti. Un altro punto su cui rifletterei è proprio il limite dell’espressione “giovane artista”. In Italia si ha una percezione dei giovani un po’ negativa. Molte opportunità dipendono dall’età anagrafica di una persona. Io penso che ognuno di noi abbia qualcosa da dire e che il gap dell’età sta proprio nel non permettere a certe persone di fare esperienze che potrebbero trasformare la carriera di un’artista. Fortunatamente, oggi, è molto più semplice viaggiare, studiare e lavorare all’estero. Sono fiera di aver scelto di studiare in un altro Paese, che oggi mi sta aprendo delle finestre lavorative importanti.
Tra le tante esposizioni, ce ne sono alcune fuori dai confini europei, in particolare alla Biennale della Fotografia di Bamako, in Mali, e alla galleria Cécile Fakhoury di Dakar, in Senegal. Hai trovato una differenza nel modo in cui le tue opere vengono recepite, in base al contesto?
Sicuramente ci sono differenze nel modo di leggere le opere. La percezione è stimolata da un bagaglio visivo, culturale e storico che è stratificato nell’identità di chiunque si ritrovi davanti o all’interno di un’opera d’arte. È davvero stimolante e sorprendente vedere le reazioni nelle differenti geografie che hai citato. In Mali, per esempio, avevo mostrato delle fotografie installate a parete a filo con il pavimento, messe in relazione a un ammasso di terra recuperato in una zona industriale della città. Questa associazione, per un popolo che ha un rapporto viscerale con la terra, è stata immediatamente percepita e letta dai visitatori locali.
Immagino ti aspetti un 2024 decisamente carico: qualche anticipazione dei tuoi prossimi progetti?
Sì, carico e impegnativo. Sto lavorando a nuove produzioni e rielaborando alcuni progetti esistenti e inediti di qualche anno fa. Posso dire che esporrò in una mostra a Parigi, dove sono attualmente in residenza, poi in Italia, dove parteciperò a tre collettive e una personale, e infine una mostra collettiva negli Stati Uniti. Spero in una possibile esposizione a Dakar, dove torno sempre volentieri.
Chi è Binta Diaw
Binta Diaw è nata a Milano nel 1995. Di origine italo-senegalese, vive e lavora tra Milano e Dakar. Si è diplomata all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano e, successivamente, all’ÉSAD di Grenoble. Il suo lavoro è stato al centro di numerose mostre personali: The Land of Our Birth is a Woman, Centrale Fies, Dro (2022); Toolu Xeer, Galerie Cécile Fakhoury, Dakar (2022); Les tirés ailleurs, ChertLüdde, Berlino (2022). Tra le collettive si segnala: uMoya: The Sacred Return of Lost Thing, 12a Biennale di Liverpool (2023); Still Present!, 12a Biennale di Berlino (2022); Bellezza e Terrore: luoghi di colonialismo e fascismo, Museo Madre, Napoli (2022); The Recovery Plan. Devoir de mémoire à l’italienne, Istituto Italiano di Cultura, Parigi (2022); SOIL IS AN INSCRIBED BODY. On Sovereignty and Agropoetics, SAVVY Contemporary, Berlino (2019). Nel 2022 è stata la prima vincitrice del premio franco-italiano Pujade-Lauraine. Il suo nome figura tra i finalisti del MAXXI Bulgari Prize 2024.
Saverio Verini
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #75
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