Quella di Pedrosa sarà Biennale di Venezia di passione e senza bellezza?

Parla di sé Adriano Pedrosa e del suo essere straniero, il primo curatore queer, dice, della Biennale Arte di Venezia. Ma come sarà la prossima edizione? Si parla di diaspora italiana, di Modernismo brasiliano, ma non di AI. Il commento di Alessandra Mammì

Sarebbe stato meglio cominciare dalla fine questa conferenza stampa della Biennale di Venezia, perché è nelle frasi conclusive che Adriano Pedrosa ha dato una chiave di lettura molto più interessante delle tante parole dette nei primi quaranta minuti di presentazione intorno a un titolo ” Stranieri ovunque“. Tema troppo vago e insieme troppo frequentato negli ultimi anni: lo straniero nei suoi molteplici significato di forestiero ed estraneo, diverso e profugo, migrante ed emigrante, primitivo e espatriato. E poi: lo straniero che è in noi e Venezia come città straniera fatta di commerci e incontri. Poi: il perturbante Freudiano, la voce dell’Oxford Dictionnary of English e l’artista, infine, perennemente in viaggio perennemente straniero.

Stranieri ovunque secondo Pedrosa

Ci girava intorno insomma Pedrosa, elencando i tanti artisti di paesi lontani che per la prima volta si affacciano in laguna mentre sullo schermo apparivano immagini di pitture, tessuti, sculture e nomi per lo più sconosciuti. Il presidente Roberto Cicutto era soddisfatto. Dichiarava agli astanti di aver chiesto al curatore “tanta bellezza” e dalle pitture (molte) che apparivano sullo schermo (neozelandesi, coreane, filippine, argentine, brasiliane…) constatava che “la promessa era stata mantenuta”. Ma poiché chi lavora da tempo con l’arte contemporanea sa quanto la parola “bellezza” sia un’arma a doppio taglio, il giudizio su questa Biennale oscillava nel corso della conferenza stampa.
Con temi così generici (come quelli purtroppo in uso anche nelle ultime edizioni) l’unica vera conferma sulla qualità dell’intera operazione sarà il giorno dell’inaugurazione. È lì che giudicheremo di fronte alla scrittura visiva, alla sua leggibilità, nelle domande che provoca (che sono più importanti della bellezza), nella sfida di costruire un paradigma e qualcosa da cui non si torna indietro. Una Biennale dovrebbe servire a questo.
Comunque, nel corso della dissertazione di Adriano Pedrosa, la Biennale appariva sempre più come un viaggio in una parte del pianeta che l’eurocentrismo della nostra cultura aveva rappresentato poco e male finora, perlomeno a Venezia.

Roberto Cicutto e Cecilia Alemani. Photo Andrea Avezzù. Courtesy La Biennale di Venezia
Roberto Cicutto e Cecilia Alemani. Photo Andrea Avezzù. Courtesy La Biennale di Venezia

I temi della prossima Biennale Arte

I fuochi della manifestazione saranno sostanzialmente due, ci annunciava. Il primo riguarda la contemporaneità e artisti iconici o comunque molto importanti nel loro paese ma ignorati dalla cultura anglo europea. Il secondo è invece punta ad uno sguardo al passato verso opere trascurate, nomi emarginati, comunità intere mai viste o movimenti nati qui ma che poi si sviluppano in altri paesi con esiti del tutto nuovi. 
Uno dei punti centrali dell’indagine sarà soprattutto l’evoluzione del Modernismo a partire dalla figura di Osvaldo De Andrade, poeta, teorico e autore del “Manifesto antropofago” del 1928 dove teorizza che la forza della cultura brasiliana sta nel riuscire a cannibalizzare le altre culture alla luce di una cultura autoctona e indigena.
Con questa chiave saranno scelte opere di artisti di ogni continente dove la lezione occidentale viene riletta e rivitalizzata in sale tematiche: ritratti, astrattismo, diaspore. 
In ogni sala viene scelta una sola opera (forse un po’ poco per tanto complesso approccio) per ciascuno dei 112 autori in arrivo da “ovunque nel mondo” con il rischio che la galleria di belle tele cannibalizzi (qui sì) il pur interessante schema curatoriale.
Più rigoroso e a fuoco stretto probabilmente sarà “L’archivio della disobbedienza” firmato da Marco Scotini, collocato a metà delle Corderie e dedicato alle pratiche artistiche e all’attivismo di genere con video di artisti e collettivi che dal 1975 arrivano fino a noi.

La diaspora italiana e Lina Bo Bardi

Un’altra tappa è dedicata alla nostra diaspora italiana con nomi di artisti italiani all’estero che hanno segnato la storia dell’arte nei paesi di approdo. E a suggellare il tutto ecco Lina Bo Bardi, architetta straordinaria che rigenerò il modernismo in Brasile e la lezione del suo maestro Giò Ponti alla luce della cultura indigena. Un doveroso omaggio attraverso la ricostruzione delle teche trasparenti che la straordinaria architetta progettò per il Masp di San Paolo firmando un rivoluzionario canone di allestimento museale.
La parte contemporanea della mostra non si discosta molto da questi presupposti. Abbraccia però il lavoro creativo di comunità indigene, dai Maori alla tribù amazzoniche, si concentra su opere tessili rivalutando sul piano artistico l’attività artigianale (altra cosa pericolosissima che fu uno dei punti deboli della precedente Biennale di Cecilia Alemani dove si annullava il confine fra creazione artistica e creatività femminile).

Adriano Pedrosa, (Photo Daniel Cabrel, Courtesy Museu de Arte de São Paulo Assis Chateaubriand)
Adriano Pedrosa, (Photo Daniel Cabrel, Courtesy Museu de Arte de São Paulo Assis Chateaubriand)

Una biennale senza AI

Tanto che puntuale arriva una intelligente domanda da una collega che chiede se tutto questo fiorire di pennelli e tessuti non sia polemica risposta alla cultura digitale, alla realtà virtuale, alla ricreazione dell’immagine da parte dell’AI. Tutte cose delle quali in questa Biennale non c’è traccia. Il curatore appare stupito e risponde che questo non rientrava nella sua ricerca. Evidentemente lui si era concentrato solo sugli stranieri umani, sarà compito di un’altra Biennale occuparsi di Avatar.
Si poteva chiudere così fra luci e ombre questa conferenza stampa che ci annunciava un tema vago e tante opere colorate, se Adriano Pedrosa alla fine non avesse detto qualcosa che speriamo si trasformi in quel briciolo di passione, di volontà, di tensione che fin qui mancava.
Ha concluso parlando di sé come straniero, come cittadino con un passaporto più che dignitoso che in Europa però l’ha fatto sentire spesso un abitante del terzo mondo. Come un queer – il primo ha detto, omosessuale dichiarato a guidare la Biennale -. Come un uomo straniero anche a se stesso in una posizione perennemente obliqua al mondo…
Bene. Se questa dichiarazione prende corpo nella mostra, se esplode in un punto di vista curatoriale e personale, se diventa davvero un j’accuse contro l’imperturbabile pretesa di superiorità della cultura eurocentrica e un passionale difesa del diverso, allora la scommessa di lasciare una traccia nella storia della Biennale, può essere vinta. La scommessa vera, non quella della bellezza.

Alessandra Mammì

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