La minaccia della bellezza. Storia decorativa e patrimonialista di questo termine
Come è nato l’uso smodato della parola “bellezza” nell’arte contemporanea? Qual è il suo significato? Se ne è parlato anche alla conferenza stampa della Biennale di Venezia
Nel suo articolo dedicato alla presentazione della prossima Biennale di Venezia, dal titolo Stranieri ovunque, da parte del curatore Adriano Pedrosa, Alessandra Mammì ha colto un aspetto apparentemente marginale e invece molto interessante: “Il presidente Roberto Cicutto era soddisfatto. Dichiarava agli astanti di aver chiesto al curatore ‘tanta bellezza’ e dalle pitture (molte) che apparivano sullo schermo (neozelandesi, coreane, filippine, argentine, brasiliane…) constatava che ‘la promessa era stata mantenuta’. Ma poiché chi lavora da tempo con l’arte contemporanea sa quanto la parola “bellezza” sia un’arma a doppio taglio, il giudizio su questa Biennale oscillava nel corso della conferenza stampa”.
“Tanta bellezza”. Eh sì, è proprio un termine-concetto scivoloso, “un’arma a doppio taglio”. La bellezza è stata a lungo bandita dall’arte contemporanea, considerata paradossalmente di cattivo gusto, decisamente kitsch… A partire dal ready-made di Duchamp, e ancor più dagli anni Sessanta del secolo scorso, la bellezza non si stabiliva più come obiettivo, né come termine di paragone.
La bellezza nell’arte contemporanea
Lo spiega bene del resto Natalie Heinich nel suo Il paradigma dell’arte contemporanea: “La sfida che l’arte contemporanea lancia nelle sue proposte più estreme non prende di mira solo il buon gusto, ma il valore stesso della bellezza, che all’interno di questo paradigma cessa di essere un criterio pertinente” (Johan & Levi 2022, p. 43). Anche se, personalmente, non mi hanno mai convinto le (altre) analisi che insistono su una passione dell’arte contemporanea per il brutto, è innegabile che per un lungo periodo la bellezza sia uscita dai radar dell’arte, e sia stata considerata sempre con un po’ di sospetto, di sfiducia.
Eppure, eppure. La sua ricomparsa nel corso di questa conferenza stampa, per bocca del presidente dell’istituzione, non è affatto un caso isolato: è solo l’ultimo episodio di una serie ormai abbastanza lunga, che ci dice di una recente riconquista del terreno da parte della tanto vituperata bellezza. Certo, qui ci vorrebbe un’analisi circostanziata dell’occorrenza della parola, per esempio, nei testi delle ultime Biennali e in genere delle recenti grandi manifestazioni artistiche. Ma, se decidete di fidarvi, da una decina d’anni la bellezza – che sembrava definitivamente schiacciata da concettualismi, poverismi, postconcettualismi e sensazionalismi vari – ha fatto nuovamente capolino nei discorsi sull’arte.
Bellezza e pittura dal XXI Secolo
E come mai? Che cosa vuol dire? Alessandra Mammì sottolinea acutamente come la soddisfazione, la gratificazione della domanda di bellezza si colleghi alle “pitture” provenienti da varie parti del mondo che man mano compaiono sullo schermo. Sensazione che viene confermata, anche solo ripensando alle ultime edizioni biennalesche. Allora, possiamo dire intanto che questa versione ‘XXI secolo’ della bellezza a livello internazionale si identifica con un bisogno impellente di oggetti tangibili, fatti a mano, possibilmente colorati, e in cui magari la distinzione tra arte e artigianato non risulti così netta e definita. È come se il rinnovato desiderio di bellezza nell’arte contemporanea marcasse una sorta di nostalgia del mondo fisico, in un contesto sempre più dominati e saturato da ‘contenuti visivi’ digitali. Soprattutto (non dimentichiamolo: anche se, oggettivamente, è piuttosto improbabile), questi oggetti sono scambiabili: in un sistema artistico in cui è il mercato a dettare sempre più le regole-base, anche in tema di indirizzi e di visioni, è chiaro che la preferenza non da oggi vada a superfici che comunque possano rimandare alla dimensione decorativa. Superfici “belle”, appunto.
La grande bellezza e il patrimonio culturale
Inoltre, qui da noi il termine ‘bellezza’ assume sfumature inevitabilmente sorrentiniane (si è detto che il fenomeno risale più o meno a dieci anni fa: e infatti, La grande bellezza è del 2013). Cioè, quando la parola viene pronunciata in Italia, da un italiano, l’accento è sempre sul patrimonio, e su quello che potremmo definire ‘patrimonialismo’. Qualcosa che, forse, è difficilmente comprensibile altrove. È quel fenomeno in base al quale, quando si sta parlando di arte e cultura, istantaneamente tutti i presenti si mettono a pensare a come monumenti e opere possono generare profitto, il famoso ‘indotto’; e cominciano ad associare le opere d’arte ai flussi dei turisti, dei visitatori…
Del resto, se ci pensiamo bene, la stessa Biennale di Venezia nacque nel 1895 (lo stesso anno del cinema) per iniziativa di un gruppo di intellettuali cittadini capeggiati dal sindaco dell’epoca, Riccardo Selvatico, anche per (ri)lanciare la città. Solo che la sfumatura patrimonialista della bellezza odierna ha assunto contorni vagamente minacciosi, e abbastanza in contrasto con quelle che dovrebbero essere le caratteristiche fondamentali dell’arte contemporanea. Per tornare alla prossima Biennale, staremo a vedere come si concretizzeranno nella mostra le visioni e le idee del curatore.
Christian Caliandro
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