Architettura e dignità: intervista alla progettista pakistana Yasmeen Lari 

Ha messo le sue competenze tecniche a servizio dei più bisognosi e qui ci ha concesso un’appassionata intervista. A emergere è il suo punto di vista sui temi centrali del fare architettura oggi. E su come la disciplina possa cambiare il mondo, a partire dalle donne

Con il progetto del chulah, una piattaforma in terra battuta rivestita in calce variamente decorata, Yasmeen Lari ha “rivoluzionato” il modo di cucinare delle donne del suo Paese, riducendo gli incidenti e le emissioni nocive e migliorando la salubrità dei pasti. Ma quello che la pluripremiata progettista classe 1941 non aveva previsto erano le positive ricadute sociali di questo dispositivo. “Se le donne non si supportano tra loro, chi lo fa?”, racconta oggi la prima architetta del Pakistan, che si definisce “Architect of the Poorest of the Poor” ed è nota per la sua “architettura umanitaria”, per l’interesse verso le tecniche vernacolari e le iniziative promosse con la sua onlus Heritage Foundation Pakistan, attiva dal 2000 (anno di chiusura del suo studio). 

Yasmeen Lari. Courtesy Heritage Foundation of Pakistan
Yasmeen Lari. Courtesy Heritage Foundation of Pakistan

Donne che aiutano le donne: l’esempio di Yasmeen Lari 

Ha lavorato molto con e per le donne. Quali sono le sue speranze per il futuro delle donne nel suo Paese?  
Credo che la questione vada oltre il mio Paese, perché le donne sono oppresse quasi ovunque. Il problema è che non è dato loro abbastanza supporto e non hanno la possibilità di esprimere a pieno il loro potenziale; spesso non è data loro sufficiente importanza. Come risultato le donne hanno la sensazione di non poter fare molto. Ho lavorato in aree povere, svantaggiate, in zone dove sono accadute catastrofi naturali. In Pakistan, e in molti altri paesi, le donne non hanno la libertà di praticare tante attività. E quando accade qualche disastro, nessuno si preoccupa di cosa stia succedendo loro. 
 
Può farci qualche esempio? 
Ho imparato molto lavorando nelle aree colpite dal terremoto del 2005 (il sisma del Kashmir, avvenuto l’8 ottobre 2005, ha causato circa 82mila vittime, n.d.r.). Le donne soffrivano per la perdita dei loro cari, per i bambini morti, ma nessuno aveva parlato con loro. Vivevano in una condizione di isolamento. L’ho scoperto perché sono una donna e ho avuto il privilegio di andare da loro: in Pakistan ci sono molte aree nelle quali le donne sono isolate nelle loro stesse case e non è previsto che si incontrino fuori. Ma nessuno poteva fermarmi, in quanto donna, e ho avuto la grande opportunità di incontrarle. E così, stando seduta all’aperto con loro, ho scoperto che sapevano fare cose bellissime, come i bracciali. Improvvisamente, però, il terremoto aveva messo fine a tutto; loro avevano la sensazione di non poter fare più nulla, neppure le attività pratiche consuete.  
 
Come le ha aiutate? 
Erano tutte sfollate: un disastro non lascia niente dietro di sé. Eppure dovevano riprendere a vivere le loro vite: spettava a noi dotarle di quanto serve per ricominciare. Sono molto a favore del lavoro manuale e artigianale e il mio Paese ha molta tradizione da questo punto di vista: abbiamo iniziato in questo modo.  
 
Qual è l’insegnamento di quell’esperienza? 
Lavorando alle case delle donne, come architetta mi sono dovuta mettere in relazione con le loro condizioni, i loro bisogni. Donne e bambini restano in casa per la maggior parte del tempo, rispetto agli uomini, ma nulla è progettato per prendersi cura di loro. Inoltre ho capito che se le donne non vengono coinvolte nei processi di ricostruzione, non è possibile aiutare la gente. Da allora ho cominciato a chiedermi: cosa possono fare le donne? Abbiamo avuto tanti disastri in Pakistan e ogni volta bisogna agire affinché loro sappiano come prendersi cura di loro stesse. 

Pakistan Chulah. Courtesy Heritage Foundation of Pakistan
Pakistan Chulah. Courtesy Heritage Foundation of Pakistan

L’architettura come strumento di dignità e di trasformazione sociale 

Concorda sul fatto che la sensibilità delle architette sia diversa da quella dei colleghi? 
Sì, penso che le architette mettano sul tavolo una sensibilità differente. Di conseguenza, più inclusiva rendi la professione, più diventa probabile raggiungere un segmento di società fin qui trascurato. Architetti, uomini e donne: tutti devono capire. Una volta che conosci e sperimenti, allora puoi dare una risposta e fare qualcosa di buono. Non si può essere superficiali su questo. Come donne, inoltre, ci dobbiamo aiutare tra noi. Se non ci aiutiamo tra noi, chi lo fa? Le donne sono state lasciate da parte troppo a lungo. Ora il momento è arrivato: dobbiamo fare la nostra parte. Non stiamo chiedendo niente di più di questo: poter fare la nostra parte. E la società ci deve aiutare a farlo. Deve. È una cosa positiva per tutti.  
 
Quale lezione ha appreso dai contesti emergenziali? 
Nelle aree colpite dalle inondazioni in cui ho lavorato, aree enormi, ho imparato molto dal patrimonio. I sopravvissuti erano spesso coloro che lavoravano su piattaforme; sollevati dal terreno, non hanno risentito dell’acqua. Quindi dovevamo ricostruire su piattaforme per mettere al sicuro le persone. Molte volte poi è successo che ci fossero milioni di persone sfollate tutte insieme: c’era cibo da distribuire, ma mancavano le cucine perché erano state spazzate via dall’acqua. Dovevamo ricostruirle affinché le donne potessero continuare a cucinare, indipendentemente da un’altra possibile inondazione. 
 
E così veniamo al suo progetto del “chulah”: ci spiega che cos’è? 
È una cucina, un fornello sopraelevato. Quando abbiamo progettato il chulah, inizialmente avevamo pensato di usare mattoni cotti, poi abbandonati perché ad alta emissione di carbonio. Invece, abbiamo usato solo terra: sono cucine fatte di terra, efficienti e pulite. In questo modo le donne non cucinavano più sul terreno e non avevano malattie: prima utilizzavano questo terribile combustibile ottenuto da biomasse, avevano il gas negli occhi, i bambini si bruciavano. Non c’erano filtri, quindi non avevano cibo pulito. Sollevando il fornello da terra, ponendolo su piattaforme, improvvisamente hanno avuto cibo pulito. E non avevo realizzato nemmeno io l’impatto di tutto questo. 
 
Ovvero? 
Quando cucinavano per terra le donne erano accucciate, dovevano chinarsi e in qualche modo non avevano dignità. Apparivano in una posizione non elevata e non avevano rispetto per questo. Ma sedute su una piattaforma, erano erette, dritte; avevano cibo pulito e potevano darlo ai bambini, standoci insieme. Così il loro status nella società è cambiato. 

Un piccolo cambiamento che ha fatto molto. 
Questo piccolo intervento ha dato loro dignità. Così ho capito quanto gli architetti possono adoperarsi per dare dignità, alle donne in particolare. Ma non solo. Le donne chiedevano anche di essere creative e all’improvviso questi dispositivi sono diventati sempre più grandi, trasformandosi in luoghi di socializzazione, in cui i bambini si trovavano per cena. Quindi sollevate da terra, senza insetti, tutto pulito e con più interazioni sociali. 
 
Un effetto domino, dunque. 
Avevano la dignità mai avuta prima: questa è la cosa più importante. E siccome decoravano le loro cucine, avevano sviluppato senso di proprietà e orgoglio. Ognuna di esse era un’opera d’arte, unica perché decorata con creatività. È stato come se l’architettura avesse dato loro la possibilità di esprimere la propria identità, quello che erano e quello che volevano. C’era bellezza intorno a loro, qualcosa che non avevano mai avuto prima. E lo avevano costruito loro.  

Il futuro dell’architettura secondo Yasmeen Lari 

È stata tra gli speaker della conferenza “In focus: radical repair”, in Triennale Milano, collegata allo Young Climate Prize riservato a giovani architetti. Cosa pensa che sia importante insegnare alle nuove generazioni di progettisti?  
Penso che i giovani vogliano davvero cambiare le cose. E non credo che il modo in cui è praticata l’architettura sia giusto. Le nuove generazioni sono più consapevoli dei valori umani, del fatto che dobbiamo aiutarci l’un l’altro. Comprendono meglio anche cosa sta accadendo nel resto del mondo molto più di quanto non lo facciano le persone più mature. I giovani professionisti, in particolare in questo ambito, sono più consapevoli e sanno che la professione, il modo in cui è praticata, non li sta aiutando. Vogliono sapere cosa devono fare, ci cercano, hanno bisogno di una guida e non li stiamo aiutando, non li incoraggiamo. Insegniamo le stesse cose di cui si parlava decenni fa. Non stiamo dicendo loro quali sono i nuovi imperativi. Cosa succede se la gente viene sfollata? E se c’è povertà nel mondo? Cosa succede se ci sono i conflitti e i migranti nelle nostre città? E quando c’è un’alluvione? C’è qualcuno che sta parlando di tutto questo? Qualche studio di architettura sta lavorando su questi temi? Molto pochi e anche per quelli che ci lavorano, sono questioni marginali, non il lavoro principale. 
 
Cosa suggerisce quindi? 
Com’è noto, sono profondamente concreta. Sono rimasta scioccata dalla medaglia d’oro (il riferimento è alla Royal Gold Medal, che le ha assegnato il Royal Institute of British Architects nel 2023, n.d.r.): ero molto grata per i complimenti al mio lavoro. Ma non ho bisogno di commesse, non mi servono soldi. Ho lavorato per i poveri. Molti architetti vogliono ancora fare edifici iconici. E così i giovani architetti vengono formati per questo. Ma c’è anche un modo di lavorare totalmente differente, che molti vogliono sperimentare; spesso non possono, perché non vengono pagati. Dobbiamo iniziare ad aiutarli a praticare la professione in modo diverso. Altrimenti, appena i giovani iniziano la pratica in grossi studi, entrano in un sistema tale per cui non possono fare quello che desiderano. 
 
Qual è il suo proposito? 
Sto chiedendo a città, istituzioni, associazioni di professionisti, come RIBA, che ci siano incubatori per architetti. Si fa per il settore tecnologico, perché non in architettura? L’industria edilizia ha molti soldi! Bisogna andare verso il campo umanitario, lavorare sulla progettazione urbana che tenga conto dei bisogni delle persone. Se veramente vogliamo che qualcosa cambi, se vogliamo un mondo più inclusivo, i professionisti devono dare più sostegno. Questo è ciò che sto facendo io, ovunque ci sia qualcuno che mi voglia dare ascolto. 

Architettura vernacolare e carbon neutral 

Un’ultima domanda tecnica, sulla calce. Cosa l’ha portata a scegliere di utilizzare questo materiale?  
Mi sono formata per fare l’architetto come tutti gli altri, nel Regno Unito, alla Oxford School of Architecture. Non ne sapevo niente della calce, l’ho scoperta nella letteratura e utilizzata nei lavori di restauro. I miei edifici erano ad alto contenuto di carbonio, con il cemento armato, l’acciaio. Alcuni erano davvero enormi: negli Anni Ottanta alcuni dei miei edifici erano tra i più grandi del Pakistan. Nel 2000 ho smesso con il cemento armato; ho iniziato ad usarne il minor quantitativo possibile. Stavo lavorando su un sito storico di Lahore e ho imparato a utilizzare la calce. Lì è dove tutto ha avuto inizio: stavo lavorando per salvare su un soffitto stupendo del XVI – XVII secolo e ho imparato ad usare calce. 
 
E poi è arrivato anche il bambù? 
Nel 2009 mi era stato chiesto di dare una mano con alcune comunità sfollate che vivevano nelle tende. Dovevo progettare qualche cucina comune veloce, in modo che le donne potessero cucinare da sé. Il modo più rapido è stato usare il bambù, insieme a terra e calce: fino a quel momento non ne sapevo niente. Ne 2010 ero ad un campo base in montagna; abbiamo fatto alcuni esperimenti sull’uso del bambù nelle strutture. L’anno dopo, quando c’è stata un’alluvione imponente, abbiamo iniziato ad adottarlo nell’area danneggiata. Da allora non uso altro che questi tre materiali: terra, calce e bambù. Perché quest’ultimo cattura il carbonio: ora tutto ciò che faccio è carbon neutral grazie ad esso. E il bambù assorbe carbonio dalla calce, che è un regalo dell’Italia al mondo: la conosciamo grazie a Vitruvio, è stato lui a parlarne! 

Con l’impegno di rileggere Vitruvio si conclude questa intensa chiacchierata con l’architetta Yasmeen Lari. 

Letizia Pellegatta 

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Letizia Pellegatta

Letizia Pellegatta

Letizia Pellegatta, laureata in Architettura presso il Politecnico di Milano con una tesi in ambito storico-urbanistico, è appassionata di storia, arte e dei legami tra storia e manifestazioni artistiche ma anche profondamente curiosa della contemporaneità. Inaspettate casualità l’hanno portata a…

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