Architetti e designer ci spiegano come sarà abitare nello spazio
Autori di un libro sul design e l’architettura spaziale e professori di un corso al Politecnico di Milano, Annalisa Dominoni e Benedetto Quaquaro lavorano per dare forma a un futuro di oggetti e città al di fuori del nostro pianeta
Annalisa Dominoni e Benedetto Quaquaro, partner dello studio a+b, non sono architetti comuni ma “spaziali”. Si occupano infatti di architettura e design per lo spazio e per gli ambienti estremi e sono i creatori del primo corso di architettura e design spaziale Space4InspirAction, nato nel 2017 alla Scuola del Design del Politecnico di Milano e supportato dall’Agenzia Spaziale Europea (ESA). Collaborano con le più importanti agenzie spaziali e hanno realizzato per TASI (Thales Alenia Space Italia) ambienti sensoriali e moduli per attività di entertainment per astronauti.
È uscito quest’anno, edito da Il Saggiatore, il libro Le città dell’universo. Come sarà abitare nello spazio, una guida per viaggiatori dello spazio che ci fornisce gli strumenti per immaginare come abiteremo al di fuori della Terra, come saranno le nostre città, le nostre abitudini, come cambieranno i nostri corpi e quali sfide dovremo affrontare.
Nel lavoro di Annalisa Dominoni e Benedetto Quaquaro, il design è comun denominatore per affrontare tutti i temi, dalla sostenibilità all’abitabilità, dal benessere alla nuova quotidianità spaziale, creando nuovi strumenti e linguaggi e costruendo un ponte tra tecnologia ed estetica, tra scienza e bellezza.
Annalisa Dominoni e Benedetto Quaquaro ci presentano scenari immaginifici che non sono prodotto della fantasia o racconti di fantascienza ma un lucido racconto del futuro dell’umanità, una previsione verosimile sulla base delle loro conoscenze scientifiche.
Nel leggere delle città lunari o degli insediamenti su Marte descritti nel saggio ho pensato a Italo Calvino e alle sue Città invisibili, luoghi immaginari dalle caratteristiche sorprendenti che hanno il potere di farci riflettere sulla società e su noi stessi e di suscitare domande. Anche quelle sulla luna o su Marte sono delle “città (ad oggi) invisibili” ma già concrete nelle menti di chi, come Annalisa e Benedetto, guarda alle stelle.
Da toscana non potevo non restare colpita e incuriosita dall’espressione “Rinascimento interplanetario” usata nel libro, che evoca un’idea di transizione tra due periodi, di cambiamento, novità di linguaggi e paradigmi.
Siamo molto contenti che tu abbia iniziato proprio da questa domanda. Hai centrato perfettamente il senso. L’idea si basa sulla nostra convinzione che oggi l’esplorazione spaziale umana sia passata da una condizione iniziale pionieristica, di sopravvivenza, in cui l’unico fattore che contava era la sicurezza a discapito di tutte le altre esigenze dell’equipaggio, a una più evoluta, dove comfort e benessere sono prioritari per garantire l’abitabilità e lo svolgimento delle attività in modo sempre più efficiente.
Se il Rinascimento poneva al centro l’uomo su cosa si basa il Rinascimento interplanetario?
Siamo di fronte a un essere umano interplanetario che finalmente acquista un ruolo centrale nell’esplorazione spaziale, non è più solo un astronauta formato da una carriera militare e pronto ad eseguire ordini e procedure, ma è anche ricercatore, scienziato, e perfino turista. Il settore privato ha fatto molto per poter offrire viaggi spaziali che saranno nel prossimo futuro alla portata di tutti. Noi crediamo che la capacità del design di progettare esperienze sarà alla base di questo “Rinascimento interplanetario” che rappresenta un modo nuovo di vivere lo spazio.
Benessere e sostenibilità sono concetti centrali nel libro, già importanti (e per fortuna sempre di più!) nella società odierna ma con un’accezione sempre più stringente nel futuro da voi prospettato. Come verrà declinata la sostenibilità nelle città dell’universo?
La Stazione Spaziale Internazionale (ISS) è già oggi un esempio virtuoso di sostenibilità, ricicla infatti quasi il 100% degli scarti, gli astronauti bevono l’acqua filtrata dalla loro urina. Se per il momento l’approvvigionamento di risorse dipende ancora dalla terra, le prossime basi sulla Luna e Marte dovranno prevedere habitat extraterrestri come organismi autonomi, completamente autosufficienti. Le città dell’universo avranno sistemi per generare energia, ossigeno e acqua, essenziali per il nostro sostentamento, così come serre per la coltivazione, trasformazione, e conservazione del cibo, e naturalmente anche cicli di produzione di materiali e tecnologie a ciclo chiuso, per trasformare gli scarti e rigenerarli.
Tra i temi irrimandabili vi è anche quello della diversità e dell’inclusione: come po’ essere lo spazio accessibile?
Due anni fa l’Agenzia Spaziale Europea (ESA) ha lanciato per la prima volta un bando per parastronauti, oggi sappiamo che sarà John McFall a volare dimostrando che lo spazio è per tutti e di grande ispirazione anche per l’inclusione sociale. Noi abbiamo sviluppato con ESA progetti di “oggetti protesici” partendo dal presupposto che nello spazio, in ambiente confinato e soprattutto in microgravità, siamo tutti disabili. Il nostro corpo reagisce a stimoli diversi, cambia la forma, la fisiologia, la postura, la percezione dello spazio, cambiano i movimenti per spostarsi da un punto all’altro, non ci sono più riferimenti di direzione, mancano gli stimoli naturali come l’aria, la luce, il vento. Tutto si trasforma e bisogna ricominciare da capo. Non sappiamo se una gamba nello spazio è più necessaria di un’estensione protesica che potrebbe avere una forma diversa, magari per ancorarsi meglio all’interno della ISS. Non abbiamo disegnato quindi oggetti diversi per parastronauti e astronauti, ma estensioni protesiche che possano amplificare le performance di tutto l’equipaggio in accordo con le nuove caratteristiche ambientali.
Nel libro viene citata Galina Balašova, la prima donna architetto e designer a collaborare a progetti spaziali, che ridefinisce negli Anni Sessanta i concetti di abitabilità e di stile di tutto il programma spaziale sovietico. Qual è il punto di vista femminile e come si inseriscono le donne nella space economy?
Alle donne sono riconosciute sensibilità che le portano a percepire in modo più organico gli ambienti, e a considerare, se progettiste, le qualità emotive e sensoriali nei moduli abitabili, come le qualità visive della luce e del colore, le qualità tattili, attraverso l’uso di materiali morbidi, le qualità acustiche, con tessuti in grado di assorbire i rumori di fondo, fino a definire quelle olfattive e gustative, migliorando la percezione degli odori e dei sapori, che nello spazio sono molto attenuati. Tutte queste scelte progettuali arricchiscono e migliorano la vita e le attività svolte nello spazio facendo sentire, citando Galina Balashova, i cosmonauti “come a casa”. La space economy è un’occasione per le donne di aprirsi a nuove esperienze, pensiamo ad esempio alle tante start-up che si sono formate sul tema dello spazio e anche alle possibilità offerte dalle agenzie e industrie spaziali di partecipare ai processi di innovazione che generano nuovi modelli di business e nuove professioni.
Avete progettato l’ambiente di entertainment nello spazio per TASI (Thales Alenia Space Italia) nel quale avete considerato le esigenze dell’astronauta e le nuove sfide della vita nello spazio, dai ritmi circadiani alterati all’impatto dell’isolamento sull’umore, fino alla diversa postura imposta dall’assenza di gravità. La difficoltà di immaginare soluzioni per tali circostanze è evidente, così come l’impossibilità di testare immediatamente se il prodotto finito sarà funzionale. Quali sono le maggiori sfide in questo senso?
Progettare per lo spazio significa nascere di nuovo e relazionarsi con leggi fisiche che non fanno parte della nostra esperienza quotidiana. Quello che ci affascina maggiormente nella progettazione spaziale è la capacità predittiva che si rivela nell’immaginare come saranno usati i nostri prodotti nello spazio, come si relazioneranno con gli astronauti e con l’ambiente, come reagiranno a sollecitazioni esterne e come si comporteranno a supporto delle attività. In tutto questo processo emerge la progettazione dell’uso e del gesto (Use & Gesture Design, UGD) che abbiamo creato appositamente per l’ambiente spaziale e che ci aiuta a definire le caratteristiche di ambienti, equipaggiamenti e anche indumenti completamente diversi da quelli che usiamo sulla Terra.
Come si riesce a coniugare l’estetica e il design in situazioni e in ambienti estremi come quelli spaziali in cui la prima cosa a cui si pensa è la funzionalità?
A noi piace pensare al design in termini di “innovazione”, che possa aggiungere valori estetici anche alla tecnologia, e anche nello spazio. Forse siamo un po’ in anticipo rispetto ai tempi. Ma abbiamo già assistito a come i bisogni prioritari di una società rappresentino il livello della sua evoluzione. Prendiamo il comfort, che si è diffuso quando sono stati soddisfatti la salute e la sicurezza. Prima della rivoluzione industriale il comfort era privilegio di pochi, poi si è diffuso in modo massivo insieme alle aspettative di una vita più gratificante per tutti, in cui il design ha avuto un ruolo determinante e rivoluzionario nel ridisegnare le qualità degli ambienti, degli arredi e degli oggetti.
Ascoltandovi sembra tutto possibile, e semplice. Il che è sorprendente e rassicurante. In fondo le migliori scoperte degli ultimi trent’anni sono quelle che hanno unito innovazione tecnologica e design.
Assolutamente vero, se guardiamo a quante ricerche ed esperimenti scientifici condotti nello spazio hanno generato spin-off tecnologici di nuovi prodotti che usiamo quotidianamente senza esserne consapevoli ne uscirebbe un altro libro. E il design è implicito nella definizione di prodotto, se vogliamo che sia comprensibile e facile da usare, oltre che attraente e performante.
I vostri allievi cosa pensano e perché vi scelgono?
I nostri allievi scelgono il nostro corso di Space Design per imparare a creare nuovi prodotti che uniscano scienza, tecnologia e bellezza, progettando allo stesso tempo anche nuovi comportamenti e gesti. Inoltre, non dobbiamo sottovalutare anche che in un mondo così difficile e pieno di contraddizioni, guardare allo spazio ci permette di evadere e poter immaginare le future città dell’universo basate su principi che ricorrono sempre più spesso nei nostri discorsi, come sostenibilità, inclusione, etica e bellezza, ma che sono ancora poco visibili. Lo spazio ci permette di sognare un mondo ideale. Per questo il nostro corso è sempre molto richiesto, i nostri studenti, oltre a progettare per lo spazio – una sfida straordinaria che permette di creare davvero cose nuove, confrontandosi direttamente con scienziati e astronauti dell’ESA – pensano che possa essere un’occasione di uscire dagli schemi e inventare un futuro migliore.
Come vedono il futuro Annalisa e Benedetto?
Citando Giovanni Lindo Ferretti potremmo dire “il futuro non è sicuro, un po’ incerto, un po’ prematuro“. Nel nostro libro cerchiamo di immaginare la vita su altri pianeti, e guardiamo anche indietro, a come l’uomo si è immaginato sarebbe stata la vita in un tempo futuro rispetto al suo, formulando visioni diverse, dai tempi di Utopia di Thomas Moore alla fantascienza contemporanea.
Quale sarà il posto dell’essere umano?
Sostanzialmente possiamo vedere che l’uomo ha sempre avuto due diverse visioni ben distinte: utopia e distopia. Il futuro nello spazio potrebbe essere fatto di città ideali su altri mondi così come di flotte di astronavi intergalattiche che combattono. Noi siamo ottimisti e vogliamo credere che l’umanità possa cogliere tutte le potenzialità di miglioramento che l’esplorazione di altri mondi potrebbe portare. E pensiamo che il design possa risultare determinante in questo processo.
Irene Sanesi
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