Arte e natura. Quali prospettive sul tema del corpo animale?
Il principio di autodeterminazione del corpo vale anche per i non umani? O l’arte può giustificare uno sguardo prettamente antropocentrico su questo tema? 10 artisti, critici e curatori si confrontano sul tema
Negli scorsi decenni gli artisti non hanno esitato a raccontare o utilizzare le forme della natura (corpi di animali in tassidermia o formaldeide, arte transgenica, body painting di animali o esseri umani, o esseri viventi all’interno di progetti installativi, da Joseph Beuys a Paola Pivi, da Jannis Kounellis a Gian Maria Tosatti, fino a Damien Hirst…). E in generale si può forse ritenere la natura morta come un anticipatore di queste forme più recenti.
Ora che gli orizzonti sono cambiati, che il corpo è una piattaforma, che il confronto con le teorie antispeciste, del veganesimo e del post umanesimo è serrato, come si colloca questo tipo di arte nella sensibilità contemporanea? Siamo passati da uno sguardo prettamente antropocentrico a uno sguardo orizzontale? O l’arte e la storia dell’arte, lo sviluppo della ricerca giustificano questo approccio?
Santa Nastro
Giulia Cotterli – artista
Ogni forma di controllo su un corpo è un abuso. La differenza tra un atto artistico che include animali umani e non umani è che i primi hanno scelto di essere lì e di prendere parte a quell’azione, i secondi no. All’animale non umano non è mai stata data la possibilità di scelta.
Viviamo nell’epoca del consenso, eppure continuiamo ad usare ed abusare del corpo degli animali, aspettandoci che stiano lì per noi. La visione antropocentrica permea ancora il mondo dell’arte: l’ultima ostentazione è stata la mostra New Egg di Vedovamazzei, a cura di Nicolas Ballario, ospitata da Villa San Quirico durante l’ultima art week torinese. Entrare in una stanza e guardare dei polli in gabbia, ah no, scusate, in dei pollai domestici, è stata l’ennesima dimostrazione di come l’arte fallisce nel tentativo di evolvere il proprio sguardo nei confronti degli animali. “Ogni pollaio lancia infatti grandi messaggi” dice Ballario, ma si sa, una gabbia anche se d’oro, nega comunque la libertà.
Gian Maria Tosatti – artista
Il corpo è sempre stato usato nella storia dell’arte. Le forme performative non prettamente teatrali hanno avuto sviluppi e prospettive differenti nel tempo, ma appartengono alla stessa famiglia dei progetti che hanno visto impegnati artisti del secondo Novecento o del XXI Secolo. Parlo delle Sacre Rappresentazioni o di quelle forme ibride di azioni non drammatiche con uomini, cavalli e altri animali, che, nella Roma di metà Seicento coinvolsero anche Gianlorenzo Bernini. Ma si può arrivare fino, ovviamente, agli spunti performativi di avanguardie storiche come il Futurismo. Il corpo è sempre stato centrale. E la vita in un’opera è una componente che nessuna riproduzione o scultura può sostituire. Il rapporto tra Beuys e il coyote è una variabile che trova il suo valore non nella sua rappresentazione o nella sua intenzione, ma, appunto, nell’interazione. Da allora, è vero che molto è cambiato. Ma tutto cambia continuamente. In un periodo della storia un gesto può esser letto in un certo modo, poi un secolo dopo può assumere un altro significato. È normale. L’unica cosa importante è che la necessità che sta dietro un gesto non venga soffocata dalla specifica sensibilità di un certo tempo. Nell’arte i gesti necessari restano rivoluzionari in ogni tempo, anche quando non ci piacciono. I gesti che non hanno una vera e verticale necessità, invece, sono sprecati sempre.
Angel Moya Garcia – Co-Direttore Tenuta Dello Scompiglio
Sicuramente sono cambiate le prospettive, gli intenti e le stesse ragioni per cui i diversi esseri umani e non umani abitano o costituiscono le opere d’arte. Mentre in passato, gli animali o le piante, ad esempio, venivano interpellati per la loro rispettiva simbologia o come metafora di una determinata condizione umana, nell’attualità l’orizzonte e lo sguardo stanno radicalmente mutando, anche se non sempre in modo completamente consapevole. La critica si sta assumendo la responsabilità di promulgare un cambio di paradigma in atto basato sulla ricostruzione di un nuovo sistema di relazioni tra l’essere umano e ciò che lo circonda in una dimensione orizzontale, inclusiva e collettiva. Il mutamento climatico, il rapporto con le altre specie, le problematiche postcoloniali, le diaspore, i populismi o i suprematismi sono oggi al centro della critica teorica e delle urgenze degli artisti in cui emerge una ricerca incentrata su modelli etici inclusivi, la tutela della diversità, il riconoscimento della differenza e la capacità di immaginare delle alternative sostenibili.
Isabella Pers – artista e co-fondatrice RAVE East Village Artist Residency
È facile gioco usare un corpo non nostro: possiede la presenza della vera vita piegata ad uso e consumo dell’artista, e l’orrore della sua assenza nel momento in cui non lo attraversa più. Ma in questo passaggio storico, così significativo per la nostra specie, diventa invece necessario sollevare lo sguardo “più in alto e più lontano” (cfr. Norberto Bobbio), verso paesaggi di coesistenza ancora da definire. Con la mostra AAA Animal Among Animals, curata da RAVE e Gabi Scardi alla Spazzapan Galleria Regionale d’Arte Contemporanea di Gradisca d’Isonzo, abbiamo iniziato lo scorso anno una prima ricognizione di opere che attraversano questo sentire, dove si possano riconoscere le basi di una crescente coscienza antispecista e figurare relazioni basate sul riconoscimento della diversità e su una mutualità dello sguardo. Proprio perché l’arte può avere la capacità di immaginare scenari altri, di aprire soglie che non sono ancora state varcate e concepire percorsi sconosciuti al di là delle barriere, persino di specie.
Martina Macchia – curatrice
Siamo sempre stati abituati a guardare gli altri animali non come individui ma come materiali e prodotti, in un processo di oggettificazione continuo, intrinseco nel nostro modo di rapportarci con i viventi. Ne mangiamo la carne, ne usiamo la pelle, ne sfruttiamo la forza.
Assistiamo a corpi smembrati, assenti, dentro e fuori dallo spazio vitale dove l’opera vive e accade. L’utilizzo dei corpi animali è in questo senso reiterazione di un atteggiamento ben più radicato, concezione per cui ci consideriamo cima di una piramide inesistente, anziché parte di un sistema circolare condiviso.
Della prospettiva antropocentrica raccogliamo tutto: per questo è diventato urgente educare lo sguardo, in un’ottica che definirei di necessaria coesistenza. Le pratiche artistiche e curatoriali hanno la responsabilità di aprirsi a una riflessione sull’alterità, dando forma a possibili immaginari per il futuro.
Giorgio Verzotti – critico e curatore
Uno sguardo non più antropocentrico già lo aveva sperimentato Giuseppe Penone fin dalla fine degli anni Sessanta. In lui i processi di crescita della natura venivano inglobati nei processi creativi dell’arte e messi a confronto senza gerarchie. C’è anche un suo lavoro degli esordi dove una lunga forma di pane viene beccata dagli uccelli fino a rivelare ciò che sta dentro la forma, cioè una frase scritta in metallo, un atto eminentemente umano messo in luce dall’azione non intenzionale degli animali.
Anche Beuys andava in questa direzione evocando il ruolo dell’animale presso gli sciamani: l’animale come mediatore e testimone nel rapporto fra l’umano e il divino. Fra le ricerche degli anni più sperimentali molte questioni sono state affrontate e fra queste anche il desiderio di giungere ad un rapporto disalienante con la natura, che rientrava anche in un dibattito contro la mercificazione dell’arte, vedi la Land Art che creava opere monumentali nei deserti americani.
Mi pare che col tempo queste posizioni si siano radicalizzate e abbiano incluso nell’indagine questioni allora ancora di là da venire, cioè di là da diventare problematiche. Il rapporto con l’animalità soprattutto. Nella mostra Il Bello e le Bestieche ho curato al Mart con la compianta Lea vergine nel 2004 cercavamo di ricostruire questa specie di genealogia: i vermi sul volto di Gina Pane, il pitone sul corpo di Marina Abramovic, ancora Beuys che convive con il coyote, e poi Luigi Ontani travestito da satiro o Cindy Sherman mascherata da topo. Gli animali vivi sono stati esposti in veste di opera d’arte “momentanea”, in molte occasioni dal notissimo pappagallo di Kounellis al coniglio di Vettor Pisani ai topi di fogna di Maurizio Cattelan (in bacheca accanto al formaggio Bel Paese).
Credo che gradualmente nell’arte sia emersa l’esigenza di valutare in modo nuovo l’animalità, anche grazie alle ricerche più recenti, e spesso spiazzanti, sulla psicologia animale e l’etologia in generale. Penso soprattutto al lavoro di Pierre Huyghe che già abbiamo visto alla documenta di Carolyn Christov-Bakargiev, e sono ormai diversi anni fa.
Invece il post-human, almeno quello di Jeffrey Deitch, cioè la generazione di Jeff Koons e di Matthew Barney mi sembra ancora molto antropocentrica: la tecnologia lì serviva per contrastare il passare del tempo attraverso pratiche che ritardano l’invecchiamento del corpo, dall’uso di protesi alla più banale chirurgia estetica. Era un andare “contro natura” per esorcizzare i fantasmi della morte. Piuttosto scontato direi.
Anche in questo campo oggi si sono fatti passi avanti, nel senso almeno della radicalità dei loro intenti. Oggi ci sono le possibilità e anche i rischi offerti dall’Intelligenza Artificiale che sta facendo le sue apparizioni anche nell’ambito artistico. Da tempo l’artista delegava la realizzazione dell’opera alla “macchina”, la macchina fotografica prima, il computer poi, ma con la robotica la macchina rischia di prendere totalmente il posto del soggetto umano. Per ora i risultati non mi sembrano interessanti se non sul piano puramente formale, ma il campo è quanto mai aperto al nuovo, ved”emo.’Certo ci sarà da ridiscutere sul ruolo dell’artista che le pratiche anti-autoriali delle avanguardie avevano marginalizzato, sarà il caso di valutare se converrà andare fino in fondo e delegare tutto al robot o recuperare un ruolo più pregnante per la soggettività senza che questo sembri reazionario…
Marco Mancuso – direttore Digicult
Cosa accomuna le creature ctonie di Donna Haraway, gli attanti di Latour e i corpi affettivi di Spinoza? Quali incroci tra gli entaglements di Karen Barad, le linee di Tim Ingold e gli iperoggetti di Timothy Morton? Mi si perdonerà l’acribia accademica, ma contraendo per esigenze editoriali l’iperbole postumana, è il concetto di “agenzia distribuita” ciò che alimenta l’idea di una materia vitale i cui rapporti di casualità tra elementi umani e non-umani danno vita a un impulso trasformativo in costante divenire. Di fronte a una natura e una realtà di cose e fenomeni scevra da uno sguardo antropocentrico, non solo certa filosofia, ma anche quell’arte in dialogo con la tecnoscienza, suggeriscono una messa in discussione dei confini fisici, sensoriali e cognitivi del corpo umano. Per una conoscenza incarnata e profondamente etica del diverso che ci circonda. Questo non vuol dire che la rappresentazione di un sublime materiale – o di una metamorfosi digitale – non sia altresì interessante nella sua ricerca formale. Ma che un’arte maggiormente performativa, radicale e speculativa, tra neuroscienze, biotecnologie e bodyhacking, si dimostra forse più efficace per assorbire e restituire traumi e speranze, paure e utopie, di un futuro che ormai è già presente.
Tiziana Pers – artista e co-fondatrice RAVE East Village Artist Residency
L’arte ha molte possibilità. Se il suo ruolo può essere anche quello di anticipare scenari possibili, talvolta nel panorama contemporaneo assistiamo invece al reiterarsi di schemi sorpassati, dove l’alterità animale è ancora violentemente oggettivata e ridotta a ‘materiale’, depauperata della sua identità ontologica, della sua stessa biografia (persino alla Biennale di Venezia abbiamo letto didascalie di animali in tassidermia classificati come ‘mixed media’). Questa ricerca del sensazionalismo attraverso un’estetica che esclude l’etica era stata definita (riguardo a Damien Hirst ad esempio) “immoralismo cognitivo” (cfr. Kieran Cashell). Tale approccio ha certamente a che fare con il periodo storico che lo aveva generato, e al quale resta indissolubilmente legato. Ma è proprio qui che risiede lo scarto: nella possibilità oggi di attraversare il nostro tempo facendoci carico delle sue ombre, avendo il coraggio di evolvere gli immaginari verso qualcosa che ancora non c’è.
Gabi Scardi – curatrice
Esiste una differenza fondamentale tra il tentativo di raccontare il mondo intorno a sé e la tendenza a utilizzare animali nella realizzazione di opere, fosse anche opere di denuncia.
In questo secondo caso si tratta di una strumentalizzazione, con l’animale non umano visto come oggetto da trattare, non come soggetto senziente da rispettare. Credo che sul tema urga interrogarsi. Per questo quando, alcuni anni fa, ho cominciato ad occuparmi della rivista di studi critici sugli animali Animot, ho subito sentito il bisogno di pubblicare il saggio di Giovanni Aloi, Animal Studies and Art: Elephants in the Room che analizza proprio gli aspetti materiali del fare arte, e come questi abbiano sempre compreso il consumo di “materia animale”. Oggi, in una cornice di maggiore consapevolezza rispetto alle implicazioni dell’azione umana, compresa quella degli artisti, l’adozione di un approccio più consapevole mi pare imprescindibile, e rientra nella necessità più ampia di ripensare lo stare al mondo dell’uomo a partire da un principio di convivialità e di coesistenza, piuttosto che di dominio e di violenza. Riflettere sulla questione può costituire inoltre l’occasione per chiedersi cosa significhi, in termini di etica, di coerenza e di postura, fare cultura. Credo ci sia ancora molto da fare; siamo ancora infinitamente lontani da una situazione “orizzontale”.
Giacinto Di Pietrantonio – curatore
Commentando con Cattelan un elefantino di Carsten Höller dissi che non era una delle sue opere più riuscite; Maurizio rispose: “Sai, un animale funziona sempre”. Difatti trovo molte delle opere che hanno usato la tassidermia ancora oggi molto interessanti, come La ballata di Trotskij di Cattelan, i maiali di Wim Delvoye, squalo e mucca di Hirst, le sculture fatte con insetti-scarabei di Fabre, gli uccellini impiantati sul muro di Vedovamazzei, oppure Beuys che nel 1965 si aggirava per la galleria Schmela di Düsseldorf con una lepre morta in braccio a cui spiegava i quadri esposti. Mi accorgo che gli esempi sono tutti di artisti uomini e ciò porta a sforzarmi nella ricerca di artiste donne. Mi vengono in mente le zebre alpine e gli orsi “pupazzi” di Paola Pivi, ma ancor più Isabella e Tiziana Pers che salvano gli animali dal macello in cambio di una loro opera, portandoli a vivere nella loro fattoria. Sono atteggiamenti opposti di fronte a quali io scelgo il terzo, quello della libertà d’espressione. Essendo un critico e curatore dipendente dall’arte la valuto per questo, anche se, per finire, direi che con le sorelle Pers nessun animale è perso.
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