Pratiche decoloniali alla Biennale Arte di Venezia. Intervista al curatore del Padiglione Olanda
Il padiglione olandese aospita il collettivo congolese Cercle d’Art des Travailleurs de Plantation Congolaise (CATPC), che insieme all’artista Renzo Martens riesce a riappropriarsi della sua terra sottratta e distrutta dalle piantagioni di una multinazionale. Ne abbiamo parlato con il curatore Hicham Khalidi
Con il tema Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere, il curatore della 60. Mostra Internazionale d’arte di Venezia Adriano Pedrosa invita gli artisti e i curatori dei diversi Padiglioni a riflettere sul concetto di alterità, dell’essere straniero in ogni luogo, persino nella propria terra. Per questo, il curatore del Padiglione dei Paesi Bassi, Hicham Khalidi (direttore della Jan Van Eyck Academie di Maastricht), ha scelto di invitare nel famoso Rietveld Pavilion il collettivo congolese Cercle d’Art des Travailleurs de Plantation Congolaise (CATPC), in collaborazione con l’artista olandese Renzo Martens.
Il collettivo CATPC e Renzo Martens al Padiglione Olanda per la Biennale Arte di Venezia 2024
Il progetto porterà a Venezia lavori plastici realizzati dal collettivo a partire dai materiali naturali tratti dagli ultimi lembi della loro “foresta sacra”, distrutta dalle piantagioni di una grande multinazionale. “Ogni scultura ha in sé il seme che riporterà la foresta sacra”, ha spiegato Ced’art Tamasala, a nome di CATPC. “Agendo da conduttore, queste sculture consentiranno un futuro equo e condiviso per tutti gli esseri umani, permettendoci di rivendicare le nostre terre rubate, di rimboschirle e di accogliere il futuro dopo la piantagione e il ritorno della foresta sacra”. Infatti è proprio attraverso la vendita di questi manufatti che la popolazione è stata in grado di riacquistare ben 200 ettari di terreni precedentemente coltivati, che ora sta rigenerando e trasformando in agro-foreste.
Il Padiglione Olanda alla Biennale di Venezia 2024. L’arte al servizio del decolonialismo
Quello portato avanti da Renzo Martens insieme a CATPC è un esempio straordinario in cui il fare artistico riesce a mettersi al servizio di una comunità, generando un cambiamento concreto in un’ottica decoloniale. E il curatore Hicham Khalidi ha scelto di portare questa realtà sul palcoscenico della Biennale, riservandole una visibilità internazionale. Abbiamo avuto il piacere di dialogare con Khalidi sui temi stringenti del discorso decoloniale in campo artistico.
Intervista a Hicham Khalidi, curatore del Padiglione Olanda alla Biennale di Venezia 2024
In che modo il tema scelto da Adriano Pedrosa per questa Biennale, Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere, si riflette nel concetto del Padiglione?
Innanzitutto, stiamo lavorando con un collettivo di Lusanga, il collettivo congolese Cercle d’Art des Travailleurs de Plantation Congolaise (CATPC). Sono indigeni della regione del bacino del Congo. Alcuni sono nati lì e hanno vissuto lì tutta la loro vita, altri sono venuti da altri villaggi e hanno costruito una vita lì col tempo. Potremmo essere in grado di rintracciare un paio di generazioni che, in principio, erano lavoratori delle piantagioni dispersi e sfollati da altre regioni del Paese. Quando i belgi avevano bisogno di operai, li cercavano da diversi villaggi.
Qual è la storia di Lusanga e dei suoi abitanti?
Lusanga è una foresta disboscata e ridotta a una tabula rasa dalle piantagioni della multinazionale britannica Unilever all’inizio del XX secolo. Si tratta di quella che un tempo veniva chiamata Leverville – dal nome di William Lever, uno dei fratelli Lever, i fondatori di Unilever quando si fuse con Uni Margarine dei Paesi Bassi nel 1930. I lusangani sono stati privati del proprio luogo di appartenenza e della loro storia, e cercano la loro terra e la loro provenienza. Sono stranieri nella loro terra. Allo stesso tempo, sono indigeni della loro terra. È una strana situazione intermedia. Ecco perché è un caso così convincente se lo confrontiamo con la premessa della mostra di Adriano Pedrosa. Perché Pedrosa cerca di parlare dell’altro, degli sfollati, dei queer e degli indigeni. Allo stesso tempo, egli suggerisce correttamente che siamo sempre stranieri ovunque. Mi piace questa idea. Siamo radicati e senza radici allo stesso tempo. Essere radicati e localizzati sono concetti fondamentali all’interno del discorso decoloniale.
Qual è l’importanza, nelle pratiche curatoriali e artistiche contemporanee, di colmare il divario tra la retorica concettuale e l’azione concreta, quando si parla di decolonizzazione?
La decolonialità ha a che fare con la messa in pratica della teoria. Se guardiamo alla decolonialità dalla prospettiva dello studio che è scaturito dall’America Latina negli ultimi cinquant’anni, scopriamo che si tratta dello studio della colonialità in relazione alla modernità: in breve, è una posizione etica e si occupa di giustizia in tutti i tipi di forme. Ed è qualcosa di molto diverso dall’idea di decolonizzazione come “indipendenza” o lotta per la libertà. Ad esempio, se i membri della CATPC parlano di decolonizzazione, gli attribuiscono un significato molto diverso da quello che gli attribuirei io se parlassi di decolonizzazione. E questo è importante, perché non sempre siamo d’accordo. Quando si parla di piantagioni da decolonizzare, io non credo si possa decolonizzare una piantagione, perché le vite e i modi di vivere delle persone nelle piantagioni sono per me già decoloniali. Ciò che intendono è che vorrebbero liberare la piantagione e lottare per l’indipendenza e l’autodeterminazione.
Cosa possiamo imparare dal lavoro del CATPC?
Quando vogliamo vivere una vita più etica e costruire ambienti di relazionalità, dobbiamo mettere in pratica la teoria. Il CATPC lo sta già facendo. Ho imparato molto da loro. Non siamo noi a dare accesso a loro in un determinato circuito, ma sono loro a farci accedere ai loro modi di vivere e al loro approccio alla vita, approcci abbandonati e cancellati dalla modernità. Uno di questi è la separazione tra natura e cultura o corpo e terra o arte e terra. Per i membri del collettivo, queste non sono separazioni ma questioni in relazione. Queste separazioni sono create dalla modernità nella ricerca di efficienza e potere. Abbiamo bisogno di ripristinare i rapporti che abbiamo interrotto. E si tratta di un’impresa pratica, fatta sul campo, in comunità, in relazione con gli altri, con gli altri esseri e con la Terra. Per me, questo fa parte della decolonialità e questo è qualcosa che i membri del collettivo praticano quotidianamente.
Laura Cocciolillo
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