La bombetta di Chaplin e le patatine di Beckham
Le follie del collezionismo. Che si tratti della bombetta di Charlie Chaplin, di una lettera di John Lennon o degli avanzi di un pasto di David Beckham. Non c’è alcuna differenza? Cosa ne penserebbero Hannah Arendt e Walter Benjamin? “Il grande vetro” arriva alla terza puntata.
Non troppo tempo fa, il 19 novembre 2012, sono stati resi noti gli esiti di una delle tante aste che cercano di appioppare – e, per carità, la pretesa è feticisticamente legittima – alcuni cimeli in qualche modo collegati alle celebrità. Per 62.500 dollari un fortunato acquirente si è aggiudicato la storica bombetta indossata da Charlie Chaplin quando interpretava Charlot. La casa d’aste Bonhams precisa che il lotto comprendeva anche il bastone usato da Chaplin nei propri film muti. Non è stato l’unico affare: si passa dai 25mila dollari battuti per una lettera scritta a mano da John Lennon ai 21.250 dollari per un set di fotografie di Marilyn Monroe, fino ai 10.625 dollari per un quadro di Frank Sinatra.
Fintanto che si parla di Charlie Chaplin o di Marilyn Monroe, e, soprattutto, si fa riferimento allo stato antecedente e preparatorio del “museo”, ossia il “collezionismo”, si è ancora tentati di schivare ogni tentazione pseudo-moralistica che bolli come “bizze” acquisti del genere; e, in aggiunta, si avrebbe voglia di scomodare Hannah Arendt per spiegare l’impulso alla raccolta e il piacere del possesso alla luce di una considerazione di quest’ultimo, che la Arendt mutua da Benjamin, come “rapporto più profondo che si può avere con le cose” (Il pescatore di perle, 1968). O, ancora, rispolverare le penetranti analisi proprio di Walter Benjamin sui comportamenti del collezionista quali emergono dalla letteratura dell’Ottocento francese. Per il noto intellettuale, il “collezionista” sarebbe in sostanza un illuso che crede di poter “togliere alle cose, mediante il possesso di esse, il loro carattere di merce”: come a dire, che la bombetta di Chaplin ha la facoltà di trasferire idealmente in un mondo “dove le cose sono libere dalla schiavitù di essere utili” (I “Passages” di Parigi, 1927-40).
Un episodio di cinque anni fa, quasi esatti, conferma però l’atteggiamento polemico di Benjamin, che aveva osservato come affrancare le cose dall’obbligo di utilità senza passare per una rivoluzione dei rapporti sociali, bensì solo in virtù del gusto e della sensibilità estetica, volesse dire estetizzare la politica anziché politicizzare l’arte: il collezionista resta complice del dominio che proprio il sistema della merce impone alla sfera del lavoro umano. Il 5 dicembre del 2007, sulla Gazzetta dello Sport si leggeva una notizia abbastanza sconcertante. L’articolista scriveva di “follia collettiva”: una pannocchia di granoturco mangiucchiata, una bottiglietta di Coca Cola mezza vuota e una patatina caduta per terra, avanzi di un pasto del calciatore David Beckham in un fast food di Wellington (Nuova Zelanda), erano stati raccolti e messi all’asta su Internet sul sito Trade Me. Nonostante la patatina raggiungesse la quotazione di appena 3 dollari e la pannocchia restasse invenduta, per la bottiglietta perveniva un’offerta di 2.800 euro. Stavolta, però, si fa fatica a pensare a un qualche collegamento con l’idea di “musealizzazione”: piuttosto, Benjamin viene in soccorso – tanto più se il sito si chiama Trade Me! – aiutando a interpretare un collezionismo degenere, sempre dietro l’angolo, come ennesima, insana deformazione dello spirito capitalistico.
E proprio dietro l’angolo, immagino questo signore che si acquatta dietro la sedia di Beckham, ibrido venuto male tra James Bond e un monnezzaro, pronto ad alchemizzare patatine smangiucchiate in trappole ciarlatane per idolatri dell’ultima ora.
Trappole: penso ai tableau-piège di Daniel Spoerri, artista svizzero che incollava gli oggetti sul supporto in cui si trovavano in quel momento. Udite, udite: lo fece anche con gli avanzi di un pasto (Le croutisme, 1960). Ambiguamente negava il carattere artistico di queste opere: “Sono piuttosto una sorta di informazione, di provocazione, dirigono lo sguardo verso regioni alle quali di solito non presta attenzione” (in Zero, n. 3, luglio 1961). Commenterà Giulio Carlo Argan: “Il tema è la lenta mutazione dell’ambiente visivo. Ossessione del conservare contro ossessione del consumare”. Ossessione – quest’ultima – non guarita, a distanza di quasi mezzo secolo. Già, perché la lattina di Beckham non è conservata per avido “ri-consumo”, non più a uso di gole rinsecchite e assetate, bensì di cervelli barbaramente atrofizzati, alla ricerca brancolante della benevola briciola del semi-di(v)o Beckham: adepti della religione dell’immagine. Una religione a buon consumo, e – sempre dietro l’angolo – Padre Warhol benedicente, dall’altare a caro prezzo di un’immagine-merce-santino di Marilyn Monroe.
Antonio Maiorino
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