Giovani curatori e dove trovarli. Intervista a Gioele Melandri
Nonostante i suoi pochi inverni, Gioele Melandri sta costruendo una solida carriera nella curatela, partendo dal basso e conservando umiltà e determinazione. L’abbiamo incontrato per conoscerlo meglio
Gioele Melandri nasce a Bologna nel 1999. Sin da giovanissimo inizia a lavorare per istituzioni culturali pubbliche e private romagnole, per cui sviluppa progetti di ricerca legati alla storia dei territori e delle istituzioni, tra queste il Museo Civico Luigi Varoli di Cotignola, il Museo Carlo Zauli di Faenza, il Mic di Faenza, il Mar di Ravenna. Attualmente coordina un programma di ricerca, indagine e valorizzazione sulla cartapesta in arte contemporanea, collaborando con enti pubblici. Melandri è laureando nella magistrale a ciclo unico in conservazione e restauro dei beni culturali presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna.
Intervista a Gioele Melandri
Per diventare curatori spesso non esiste un iter prestabilito ed è molto variabile a seconda dalle esperienze personali di ognuno. Parlami del tuo percorso formativo e da dov’è nata l’esigenza che ti ha portato a esplorare questa pratica.
Sono diventato curatore come di solito si diventa capo cameriere al ristorante. Sono partito dal basso, sporcandomi le mani. Ho iniziato a lavorare come custode in un museo pochi giorni dopo aver compiuto diciott’anni. La prima attività che ho fatto per un’istituzione culturale è stato pulire dalla muffa un vecchio frigorifero in cui mettere al fresco il vino per un vernissage. Per lo stesso museo ho poi iniziato ad occuparmi di allestimenti, assistenza agli artisti e visite guidate. Un giorno propongo ai miei superiori una mia idea che viene accolta con entusiasmo. Entusiasmo che mi sorprese molto e che tuttora mi accompagna quando qualcuno decide di porre attenzione sul mio lavoro, come in questo caso.
Penso di essere stato anche molto fortunato; ho incontrato, sin da giovanissimo, colleghi più esperti di me che sono diventati compagni di viaggio, confidenti e consulenti. Amici veri.
Attualmente sto ultimando la mia formazione presso la magistrale a ciclo unico in Conservazione e restauro dei beni culturali dell’Accademia di belle arti di Bologna.
Che significato ha per te la parola ‘curare’, e come si declina nell’arte contemporanea?
Sto ancora cercando di capire cosa sia per me la curatela. Studiando e lavorando attivamente non ho spesso modo di fermarmi, riflettere e analizzare il mio lavoro dall’esterno. Forse non penso neppure che questo compito mi riguardi direttamente. Quello che però ho capito è che questo lavoro mi fa sentire utile, non tanto agli artisti, ai musei o alle gallerie, quanto più a me stesso.
Un altro punto della mia attività è cercare di entrare in empatia con gli spazi per cui lavoro e con le loro dinamiche socio-culturali. Ho sempre offerto la mia professionalità in situazioni in cui qualcuno aveva già solcato dei percorsi, piccoli o grandi che siano. Con la mia pratica cerco poi di essere riconoscente e rispettoso di chi ha fatto qualcosa prima di me. Ogni mio progetto è la restituzione di una “sinfonia degli affetti”, di scambi, confronti e relazioni, sia con gli spazi, che con le persone che li abitano. Infine mi piace molto sperare, quando curo un progetto, al divertimento e all’entusiasmo con cui potrebbe essere studiato tra cent’anni.
Nella tua esperienza e visione, che rapporto si dovrebbe instaurare tra artista e curatore?
Spesso si pensa che il rapporto tra artista e curatore sia unidirezionale, ma non è mai così. Gli artisti si sono “curati” di me molto più di quanto io abbia fatto con loro. La loro stima e la loro compagnia è la gratificazione più grande. Stare al loro fianco, confrontarsi e confessare sogni, progetti e aspirazioni è attualmente la soddisfazione più grande della mia vita. Non mi interessa essere un curatore che dall’alto impone le sue idee, preferisco essere un compagno di viaggio o l’invitato che, dopo una festa, raccoglie le cartacce da terra e cerca di fare ordine.
Questo secondo me è il senso profondo della curatela. Cercare di fare ordine appunto, accendere una candela in una stanza buia e costruire un sistema di attenzione e ascolto.
La più grande gratificazione per me è la soddisfazione degli artisti, più che degli spettatori. Mi piace l’idea di averli accompagnati per un pezzetto della loro storia, più che di averne influenzato in qualche modo la ricerca.
Parlami di un progetto che hai realizzato, sintesi dei tuoi interessi e della tua ricerca. Cosa ti interessa approfondire tramite il tuo lavoro?
Ho recentemente lavorato con Christian Holstad per la realizzazione della sua ultima personale in Italia. Christian è un artista che adoro da quando sono poco più che un bambino. Lavorare con lui, proponendogli le mie modalità operative, è un vero privilegio.
L’ho portato a Cotignola, nel museo per cui ho sviluppato un programma di rivalutazione e promozione della cartapesta nell’arte contemporanea e per cui lavoro da anni. Siamo partiti da alcuni suoi vecchi lavori realizzati con questa tecnica a cui si sono aggiunte una serie di nuove produzioni concepite appositamente per l’occasione. La mostra si intitola Salve, ed è la presentazione di un artista forestiero al territorio in cui lavora e trascorre la maggior parte del suo tempo. Una presentazione onesta, dignitosa e senza fronzoli, evocativa ma “rustica”, proprio come il territorio in cui la mostra si sviluppa.
Alla parte di cartapesta si aggiunge poi una sezione antologica dedicata ai disegni su carta di giornale realizzati da Christian a partire dagli Anni Novanta che ricostruiscono un percorso lungo quasi trent’anni.
Questo programma di valorizzazione della cartapesta penso sia ad oggi la mia creatura prediletta, forse l’unica in cui riesco ad intravedere un barlume di progettualità che vada oltre la singola mostra realizzata. Mi piace questa tecnica e le storie che si porta appresso, tra sculture, maschere e carri carnevaleschi. Della cartapesta mi piace anche il sapore folk, parodistico ma civettuolo. È una tecnica “giusta”, ecologica ed economica, anche queer per certi aspetti.
L’arte è da sempre parte integrante di ogni cultura e società. Nella contemporaneità, che ruolo sociale pensi che abbia un curatore e quali sono le sue sfide?
Si potrebbe rispondere a questa domanda con tutta una serie di considerazioni e suggestioni, dal canto mio preferisco però concentrarmi sullo stato delle cose e parlare delle sfide reali che possono vedere protagonista un giovane operatore culturale che inizi ad approcciarsi a questa pratica.
La sfida principale è trovare luoghi e modalità per emancipare la propria ricerca attraverso il lavoro degli artisti. Sfida tutt’altro che semplice. La condizione dei giovani curatori in Italia è ben peggiore di quella che vede protagonisti gli artisti al medesimo stato di carriera e di cui praticamente nessuno parla. Bandi e residenze per curatori praticamente non esistono. La sfida principale quindi è saper trasmettere il proprio entusiasmo nei confronti di un progetto a chi lo dovrà sostenere. Difendere le proprie idee con dignità, senza cercare scorciatoie. Tutto questo costa grande fatica e dispendio di energie, almeno per il sottoscritto.
C’è un progetto recente di una giovane figura curatoriale che ammiri? Quale?
Seguo sempre con interesse le programmazioni degli spazi indipendenti e degli artist-run space. Veri e propri diamanti grezzi. Colmano spesso un vuoto lasciato da gallerie e project room istituzionali, per tutta una serie di ragioni sia economiche che sociali. Di molti spazi invidio la freschezza, la raffinatezza sprezzante e l’ironia dissacrante.
Qual è una delle mostre che ti ha colpito maggiormente tra quelle viste nell’ultimo anno? Perché?
Basquiat, the Modena paintings. Quando sono stato alla Beyeler, da emiliano-romagnolo, ho pensato subito che ci avessero “rubato” una mostra molto furba, una mostra che avrebbe senza dubbio fatto bella figura (e successo di pubblico) all’interno delle istituzioni culturali della regione in cui i quadri sono stati realizzati. Forse però meglio così… alla fine quei quadri di Basquiat sono pieni di cacche di mucca. Un’altra esposizione che ho in mente è una certa mostra milanese sulla pittura italiana contemporanea; sono un nerd della materia e chi mi conosce lo sa bene. Quella mostra, con i limiti pratici che ogni progetto si trova ad affrontare quando diventa reale, ha avuto il merito di emancipare un dibattito sulla materia che ribolliva da tempo. La visita a quella mostra ha fatto frullare le rotelle del mio cervello per diverse settimane, nel bene e nel male.
Quali sono alcuni artisti giovani che ti piacciono particolarmente o con i quali collaboreresti, e perché?
Ne ammiro moltissimi e con alcuni di loro ho già avuto modo di lavorare, direttamente o indirettamente. Fare una lista di nomi mi risulta difficile, non credo di avere sviluppato maturità sufficiente per rispondere con coraggio e cognizione alla domanda in questione. In ogni caso, ho già lavorato con molti giovani e con altri lavorerò presto in futuro. Chi ha la mia stima non ha bisogno certo della mia misera pubblicità. Li sostengo andando alle loro mostre, frequentando i loro studi, segnalando loro bandi, candidature, premi e parlando del loro lavoro ad amici, galleristi, curatori e collezionisti.
Guardando la storia dell’arte, c’è una corrente, un movimento, un artista o un art worker del Novecento al quale ti senti particolarmente vicino?
Mi piacciono da sempre molti movimenti, correnti o gruppi, soprattutto nella loro fase germinale, quella delle esistenze e delle esperienze che si incontrano, si scontrano e si innestano. Dada, Surrealismo, Fluxus…
Ultimamente però sono ossessionato da Le Cockettes e dai vari gruppi di performer queer che hanno operato indipendentemente nel secolo scorso, superando spesso in qualità ed esuberanza quanto proposto da gallerie, teatri e musei. Ho capito che nella prossima vita vorrei fare la drag queen.
Quali sono i libri che hanno maggiormente segnato il tuo percorso professionale o personale e perché?
Ho letto tanto neo-idealismo nelle sue varie declinazioni. Colleziono cataloghi da quando sono bambino, amo leggere testi monografici, soprattutto di pittura e arti applicate del XVI, XVII, XVII secolo. Amo molto anche i libri di storia e teoria della conservazione e del restauro; sono manuali di filosofia pratica, insegnano il rispetto per il lavoro degli artisti. L’ultima cosa che ho letto sono alcune filastrocche in dialetto romagnolo di Tonino Guerra.
Viola Cenacchi
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