Gabrielle Goliath
In occasione della sua prima mostra presso la Galleria Raffaella Cortese, Gabrielle Goliath presenta un’opera lirica di ricordo, riparazione e amore nero femminista.
Comunicato stampa
Iniziata dall'artista nel 2015, Elegy è una performance commemorativa a lungo termine, messa in scena in luoghi che vanno da Johannesburg e San Paolo a Parigi, Basilea, Monaco e Amsterdam. Ogni performance riunisce un gruppo di sette performer vocali femminili che mettono in atto collettivamente un rituale di lutto, sostenendo un unico tono ossessivo nel corso di un'ora. Nel gesto rituale di ogni performance è evocata la presenza assente di una donna o di un individuo LGBTIQ+ di nome e di fatto, violentato e ucciso in Sudafrica. Per coloro che sono immersi nella sua scia sonora, Elegy è un'opportunità non solo per confrontarsi con una crisi normativa della violenza patriarcale, ma anche per riaffermare la pienezza, la bellezza e l'insistenza delle vite nere, brune, femminili e queer.
Per la mostra Elegy è stata concepita una struttura installativa ad hoc, che intreccia una partitura sfumata di video, suoni, testi e fotografie attraverso i tre spazi della galleria di Via Stradella. Essendo la prima esposizione di tutte le dieci performance filmate di Elegy, la mostra segna un momento fondamentale nel percorso artistico di Goliath: "Per me si tratta di un ricordo e di una celebrazione profondamente gratificanti di Elegy, un'opera che rimane centrale per la mia pratica e urgente come sempre nella sua richiesta politica".
In un'economia di vite valutate in modo differenziato, Elegy afferma condizioni di speranza e di rivendicazione, ricordando (come amabili e addolorabili) le vite di individui persi a causa della violenza fisica, ontologica e strutturale della cultura dello stupro e del femminicidio in Sudafrica. Il suo raggio d'azione è transnazionale e invita alla solidarietà e alla relazione senza far collassare le differenze. E, naturalmente, venendo al lavoro qui a Milano, ci troviamo coinvolti, perché, come chiarisce Françoise Vergès in Un femminismo decoloniale (2020), questa violenza non è limitata agli angoli "abietti" dell'Africa e del Sud globale, ma permea le gerarchie razziali, di genere e sessuate dell'Europa e l'ordine mondiale moderno/coloniale che ha istituito.
Il gesto artistico di Goliath è un gesto di cura e di trasformazione, che rifugge dalla spettacolarizzazione e dalla quotidiana oggettivazione di corpi neri, marroni, femminili e queer traumatizzati. Facendo ricorso al rituale, al suono e a una prassi relazionale, l'artista offre uno spazio per incontri empatici trasformativi in cui il lutto fa crollare la rappresentazione e la perdita presenta un luogo alternativo per la comunità e l'immaginazione. Nel flusso paralinguistico di questo lamento sonoro, l'artista abbandona la melodia, la narrazione e la leggibilità codificata, attirando i partecipanti in un'esperienza estetica più viscerale e risonante. E nello spazio liminale di questa incertezza (piuttosto che una chiusura o catarsi), ci chiede di compiere collettivamente un lavoro politico di lutto.
In questa socialità radicale viene richiamata la concezione del filosofo francese Emmanuel Lévinas dell'altro come confine che ci interroga continuamente, dell'alterità come condizione fondamentale del nostro essere. Questo obbligo e questa opportunità dell'"altro" sono rintracciabili in tutti i filamenti dell'installazione di Goliath - giocando nei termini contingenti ed etici della differenza e della sopportazione. Riverberando nei nostri spazi, la sua è un'elegia intima, urgente e abilitante, che fa risuonare la possibilità radicale di un mondo diverso.
Attraverso gli incontri rituali, sonori e sociali della sua pratica artistica, Gabrielle Goliath si occupa (e si preoccupa) delle storie e delle condizioni attuali di vita valutate in modo differenziato, riaffermando i modi in cui le pratiche di possibilità nere, brune, femminili e queer interpretano il mondo in modo diverso. Ciascuna delle sue opere convoca un incontro - una comunità tenue - facendo crollare la presunta rimozione e la posizione privilegiata di soggetto della rappresentazione (bianco, maschio, eteronormativo) e invitando a incontrarsi nella e attraverso la differenza, in termini di complicità, relazione e amore.
Le installazioni immersive e spesso in divenire di Goliath sono state esposte in tutto il Sudafrica e a livello internazionale. Ha ricevuto numerosi premi, tra cui il Future Generation Art Prize - Special Prize (2019), lo Standard Bank Young Artist Award (2019) e il premio dell'Institut Français, Afrique en Créations alla Biennale di Bamako (2017). Il suo lavoro è presente in numerose collezioni pubbliche e private, tra cui Kunsthalle Zürich, TATE Modern, Frac Bretagne, Iziko South African National Gallery, Johannesburg Art Gallery e Wits Art Museum. Tra le mostre recenti ricordiamo Chorus, Dallas Contemporary (2022), Dallas; This song is for..., Kunsthaus Baselland, Basilea (2022); The Normal, Talbot Rice Gallery, Edimburgo (2021); This song is for..., Konsthall C, Stoccolma (2021); Our Red Sky, Göteborgs Konsthall, Göteborg (2020); e The Power of my Hands, Musée d'Art Moderne, Parigi (2020). Ha partecipato alla Biennale di Sharjah 15 (2023), a Jaou Photo, Tunisi (2022) e alla Biennale di Kochi Muziris (2021). Gabrielle Goliath vive e lavora a Johannesburg, in Sudafrica.