La grande mostra su Pino Pascali da non mancare alla Fondazione Prada di Milano
In tre anni di carriera stravolse e segnò in eterno la scena artistica Anni Sessanta italiana e internazionale. Una cometa geniale di imprevedibilità. Questo fu Pino Pascali, e questo è il sunto della grande mostra con cui Fondazione Prada lo ha onorato
Una meteora nel cielo dell’arte italiana e internazionale della seconda metà del Novecento. Questo fu Pino Pascali (Bari, 1935 – Roma, 1968): artista imprevedibile, innovatore. Un personaggio stravagante capace ogni volta di stupire il pubblico con qualcosa di mai visto, qualcosa di completamente nuovo e diverso a quanto fatto in precedenza. Nella sua brevissima vita – morì in un incidente stradale a soli trentatré anni – rivoluzionò il panorama artistico della sua epoca, facendosi notare positivamente da critici e collezionisti. Ed è proprio con Pino Pascali che Fondazione Prada ha deciso di inaugurare la stagione primaverile della sede milanese di Largo Isarco. Una mostra dal ricco catalogo – quarantanove opere provenienti da musei italiani, stranieri, e collezioni private – diffusa in ben tre aree espositive. Molteplici e variegate le storie che ciascuna serie di installazioni vuole raccontare. Dalle ricostruzioni delle mostre dell’artista nelle più importanti gallerie, a una rassegna di fotografie che immortalano Pascali nell’atto di esibire (ed esibirsi con) le sue opere. Senza dimenticare loro: gli iconici Bachi da setola fatti di spazzole di nylon. Emblema del consumismo e della natura uniti in un solo animale.
Pino Pascali: esibizionista e maestro dell’Arte Povera
Come commenta il curatore della mostra Mark Godfrey “Pascali è un artista sempre attuale perché era un esibizionista”. Era un uomo di spettacolo a tutto tondo, e lo stesso voleva che fosse per le sue opere: portarle con sé sul palcoscenico, metterle e mettersi in scena assieme a loro. È quanto si coglie pienamente nella sezione espositiva allestita in Cisterna, ove le installazioni si diradano e lasciano spazio agli scatti d’epoca. Si vede dunque Pascali in compagnia delle sue sculture, sempre in pose stravaganti, ironiche, che dialogano con esse in modo giocoso. Soprattutto quando si tratta di quelle dall’aspetto più spaventoso e provocatorio. L’obiettivo? Sovvertirne i significati, e suggerire al pubblico l’approccio altrettanto ludico con cui avrebbero dovuto guardarle. “Aveva la capacità di creare dei miti e di distruggerli mentre li creava” – ricorda il collezionista Giorgio Franchetti – “Si pensi al mito della guerra: creava queste armi talmente vere, eppure fatte con materiali di rifiuto. E così facendo, nel mettere insieme queste armi finte e ingannatrici, rifiutava la guerra stessa”.
È in questo spirito che bisogna vivere tutta la mostra: prepararsi ad assistere a uno spettacolo nuovo in ogni nuova sala che arriva. L’imprevedibile è all’ordine del giorno. La sua brevissima carriera è infatti una costellazione di lampi di luce ogni volta di un colore e di una forma diversi. Se avesse potuto continuare – dopo la Biennale di cui non ebbe il tempo di vedere la chiusura – chissà che cosa si sarebbe inventato. Domanda che rimane aperta anche per l’immaginazione più fervida. Rispondere è impossibile. “Se mi avessero fatto questa domanda all’indomani della mostra da Sperone, non avrei potuto mai immaginare quello che ci sarebbe stato nell’esposizione successiva”, si sente dire ancora dal curatore.
La grande mostra di Pino Pascali alla Fondazione Prada di Milano
Lo spettacolo comincia dunque già dall’ingresso: una bottiglia di champagne fa da burattino del teatrino che le è stato allestito attorno. Alle sue spalle si snodano gli atti di questa commedia che ironizza e celebra i miti della natura e del consumismo italiano.
Le mostre di Pino Pascali ricostruite nel Podium di Fondazione Prada
Tutta la prima parte della mostra è un salto nel passato degli Anni Sessanta, inteso a rievocare le tappe espositive più emblematiche della carriera dell’artista. Dalla prima galleria che ne ospitò le opere nel ‘65 – La Tartaruga di Genova – fino a ciò che rimase a farne le veci alla Biennale di Venezia dopo la sua morte, quando gli fu conferito il Premio Internazionale per la Scultura.
Subito emerge il continuo accostamento, ironico e discrepante, tra natura e industria, tra arcadia e miti consumistici. Ruderi sul prato rende bene il concetto. Si prosegue poi con la serie delle Armi (giocattolo) esposte alla galleria torinese di Sperone, e si volta completamente pagina su quanto Pascali portò all’Attico, prima nel 1966 e successivamente due anni dopo. In quest’ultima sede, il pubblico fu sorpreso da opere impensabili come gli Animali – becchi, proboscidi, zampe, e altre parti corporee formato gigante – oppure le Botole, ovvero lavori in corso.
Infine, ecco alcuni pezzi che furono ospitati alla sala che la Biennale veneziana gli volle dedicare. Pelo e Contropelo, Solitario, Cesto. Enormi installazioni, ricoperte di morbida peluria, che lasciano eternamente aperto l’interrogativo di cosa si sarebbe mai inventato dopo un simile artista.
I Materiali di Pino Pascali e i miti del Consumismo italiano
Salendo al piano superiore, si sentono voci registrate di sottofondo, che raccontano i problemi conservativi delle operedi Pascali. Complicazioni connesse ai materiali di cui sono fatte. Se la plastica è eterna (un vantaggio, in questo caso), lo stesso non vale per il terriccio, l’acqua, o il fieno. Per non parlare dell’eternit – meglio noto come amianto – per cui il pericolo di sopravvivenza prende tutta un’altra direzione…
Guardare la produzione di Pino Pascali dal punto di vista dei materiali impiegati significa anche metterla a confronto con il marketing e la pubblicità cui essi erano soggetti ai suoi tempi. La mostra intesse un interessante parallelo tra i miti consumistici e industriali dell’Italia Anni Sessanta, e le opere dell’artista. Leggendo gli slogan sulle riviste d’epoca in esposizione, il passato stride ironicamente (e amaramente) con il presente. Materiali come la plastica – allora emblema dell’essere al passo coi tempi – sono osannati come comfort irrinunciabile. “Non c’è casa senza plastica” – si vede stampato a caratteri cubitali. Anche lo stesso Pascali ne fu indubbiamente attratto. Lo si vede nei Due bachi da setola e un bozzolo: simpatici animali, costituti da tante spazzole di nylon, vendute alle casalinghe per “una razionale pulizia della casa”.
Ma la sirena del progresso più eclatante rimane l’eternit. Per anni, l’eternit fece da contenitore e contenuto delle case degli Italiani. Reclamizzati come “tetti di luce” per la propria veranda, i pannelli di amianto simboleggiavano l’avanguardia in materia di edilizia. “Allez de l’avant” – come dicono le pubblicità stampate in francese – “adeguatevi ai nuovi standard europei”. Messaggi promozionali che, al giorno d’oggi, fanno ancora tremare di paura.
Anche Pascali accolse l’eternit tra i materiali protagonisti delle sue installazioni. In mostra esso compare continuamente, suggerendo il ruolo altrettanto centrale che ebbe allora per tutta la società. Come la terra stava alla natura, così l’amianto alla nuova industria.
Pino Pascali, l’Arte Povera e le mostre collettive alla Fondazione Prada
Al di fuori del Podium della Fondazione, le rimanenti due macro-sezioni raccolgono le immagini d’epoca – a cui si è già accennato – e le partecipazioni di Pascali ad alcune esposizioni collettive. Più importante di tutti è quella che riunì gli esponenti dell’Arte Povera italiana nel 1968, a cura di Germano Celant.
In mostra, i contributi dell’artista si confondono con quelli di altri suoi colleghi: dal Panettone di Alighiero Boetti, alla Frutta caduta di poliuretano espanso, realizzata da Piero Gilardi. Pezzo iconico (per quel che riguarda Pascali) è Un metro cubo di terra: perfetto esempio del suo concetto di scultura finta, in quanto solo ricoperta – e non fatta davvero – di terra.
Se però si volesse trovare un finale d’applauso da portare a casa come ultimo ricordo di questo mito dell’arte, conviene tenersi per ultima la sezione fotografica. Nella sua ultima sala, ecco comparire all’orizzonte i suoi 32 Metri quadri di mare: “Ho scelto un mare perché è da parecchio tempo che inseguo questa immagine. L’ho realizzato con l’acqua perché è l’elemento meglio rappresentativo per realizzare questa cosa, anche perché l’acqua ha delle ha delle proprietà allucinanti abbastanza notevoli. Specialmente per via del colore, che assume una dimensione di profondità e di spazio che, nei quadri, viene a mancare”.
Emma Sedini
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