Da MP5 al collettivo Amarə, l’arte nell’attivismo transfemminista e queer 

In che modo l’artivismo transfemminista si appropria dello spazio pubblico? Lo scopriamo attraverso le pratiche di MP5 e del collettivo Amarə, da anni in prima linea nella lotta per i diritti delle donne e queer

Nella tempesta di denso fumo rosa, si muovono agili delle figure in passamontagna: chi mette la colla, chi stende i manifesti. Corpo unico nella marea, spinto dalla forza del dissenso, creano qualcosa di immanente, messaggi che rimarranno per giorni, per mesi nelle vie che attraversano: la lotta transfemminista colora lo spazio pubblico, attraverso l’azione consapevole di artistɜ e collettivi. 

L’impegno di MP5

A dare una simbologia concreta al movimento di Non una di meno c’è MP5, l’artista multiforme, versatile, che da anni incarna l’attivismo transfemminista e queer. Installazioni, murales, videoarte, illustrazioni, le modalità in cui si esprime MP sono molteplici, rimanendo sempre estremamente riconoscibile per il suo tratto bianco e nero, deciso e fluido allo stesso tempo. Ha iniziato a fare arte quando a 19 anni studiava all’Accademia di belle arti di Bologna, frequentando la scena underground della città: “volevo essere ovunque” spiega: “disegnavo qualunque cosa: fumetti, locandine, muri”. È lì che ha adottato il suo nome. “Un giorno un curatore ha scritto MP5 invece del mio nome sulla locandina di una mostra. Questo fatto inaspettato e casuale mi ha affascinatə e da quel momento ho adottato questa sigla sia come artista che come persona. Per tutti mi chiamo MP, perfino per mio padre. Mi piace perché sfugge tutte le definizioni”.
Dal 2016, mentre uno dei suoi murales veniva scelto tra i 20 più belli del mondo secondo Widewalls, ha fatto un disegno per un primo evento di finanziamento di Non una di meno, il gruppo transfemminista nato ispirandosi alle proteste contro i femminicidi in Argentina. Il suo tratto è diventato subito simbolo dell’onda viola. “La collaborazione è nata in un modo naturale e spontaneo” spiega MP: “Ho sempre sostenuto il movimento e non vedo sostanziali differenze tra quello che era venti anni fa e quello che è oggi. Sono cambiati gli strumenti ma quello che rimane è tutto quello che c’era e c’è da cambiare”. 

I corpi fluidi di MP5

Le figure si legano l’una all’altra in un grande cordone e si replicano all’infinito, con gli occhi neri, riuscendo a trasmettere la forza della lotta transfemminista e intersezionale. Una lotta che esula dai binari del genere, che comprende caratteri non conformi, corpi fluidi che abbracciano tutte le possibili identità. “Quando disegno cerco di astrarre, di arrivare all’essenza di un corpo e dei suoi gesti” racconta l’artista: “Forse questa sottrazione lascia a chi guarda una maggiore libertà di interpretazione, ma non è intenzionale, per me è un processo naturale, fisiologico”. 
Cifra stilistica di MP5, che si ritrova in tutta la sua produzione multidisciplinare, i corpi, definiti da una linea nera spessa, essenziale e incisiva, rappresentano una sostanza sempre universale nella sua molteplicità. Il suo ultimo libro Corpus, pubblicato nell’ottobre del 2023 e curato da Jacopo Gonzales, raccoglie la produzione dell’artista. “Corpus è una selezione di alcune delle mie opere, che però penso riesca a racchiudere l’essenza del mio percorso” racconta MP, “Ho lavorato a lungo su diversi tipi di supporti e abbiamo deciso poi di dare un ordine in tre parti: Corpus Erotico, Ermetico ed Eretico”.

Pratiche di riappropriazione femminista dagli Anni Sessanta ad oggi

Le artiste e le performer femministe che negli Anni Sessanta e Settanta hanno per prime sfondato il muro della discriminazione di genere all’interno del mondo dell’arte, si riappropriavano prima di tutto del corpo. Corpi come medium, usati durante happening e performance per recuperarne l’agentività fuori della statica rappresentazione maschile. È il caso di Shigeto Kubota, che nel 1965 creava i suoi Vagina paintings, o della performance Interior Scroll di Carol Scheemann. È stata anche la scelta della celebre Marina Abramovich, che nel 1974 con Rythm 0, metteva il proprio corpo a disposizione, abbandonandolo alla ferocia dei fruitori della mostra. Negli ultimi anni lɜ artistɜ si riappropriano sì dei propri corpi, ma anche del contesto che abitano. Combinano attivismo e produzione artistica intrecciandosi con il territorio, uscendo – e rientrando, a piacimento – dai luoghi conformi come musei e gallerie, per vivere la dimensione pubblica della street art. “Lo spazio pubblico è da sempre il terreno ideale per esprimere opinioni e dissenso e l’arte è uno strumento efficace” spiega ad Artribune MP5: “Tutto quello che reclamiamo nello spazio pubblico è a suo modo un’opera d’arte. Penso alla forza comunicativa delle manifestazioni, grandi performance collettive che diventano simboli e immagini scolpendo la memoria collettiva”.

MP5, Non Una Di Meno, 2016
MP5, Non Una Di Meno, 2016

L’esempio del collettivo Amarə

Proprio durante i cortei, come quando cala la notte, le donne del collettivo Amarə attaccano stampe di fotografie e illustrazioni. Immagini che raccontano storie di lotta, come quella attaccata a piazza San Calisto a Roma, che raffigura una donna latinoamericana mentre manifesta l’8 marzo 2021 a Città del Messico, o che reinterpretano iconografie classiche in chiave femminista, come la fotografia che ritrae l’abbraccio tra due donne su un muro di Palermo. Il collettivo spiega che la riappropriazione è a trecentosessanta gradi il loro tema: “Occupare spazio vuol dire esistere, l’arte è uno dei tanti specchi della società, come tale va occupato, cambiato e curato”. Negli mesi scorsi il collettivo Amarə ha seminato per la città rappresentazioni in bianco e nero di figure mascherate in sostegno a Lucha y Siesta, la casa delle donne autogestita romana, sotto sfratto da tempo. Lo scorso 8 marzo hanno invece dedicato la loro azione al sostegno della causa palestinese. “Il mondo (purtroppo) è uno”, spiegano le Amarə: “Attraverso le nostre azioni cerchiamo di portare in strada la nostra solidarietà a tutte le donne, a qualsiasi latitudine”. 
Parlando delle motivazioni che le hanno portate ad agire, si dicono espressione di un malcontento collettivo: “Il nostro dolore è ormai urgenza, ribellione e riappropriazione”, raccontano: “Siamo il frutto sano di questa società che ci vuole tutte spente e obbedienti”.

L’arte transfemminista nello spazio pubblico

La street art, come attività notturna, in luoghi isolati, spesso illegale e rischiosa, diventa simbolo di una pratica maschile da decolonizzare in una prospettiva intersezionale. “Siamo consapevoli che nessuna potrà essere libera finché non lo siamo tutte” dicono le Amarə. 
Da quando il collettivo bolognese Cheap nel 2013 ha iniziato la sua produzione artistica con messaggi femministi, sempre più spesso la artista reinterpretano lo spazio pubblico con medium differenti, sperando, come le Amarə, di diventare la prossima “epidemia”. “Sono colpita dal fatto che sempre più persone si espongano riguardo al proprio pensiero” dice MP: “è come se quello per cui abbiamo a lungo lottato abbia una continuità e si muova in traiettorie diverse ma a loro modo efficaci”.
Sembra che la rivolta culturale e artistica in atto sia quella femminista. Come dicono le attiviste di Amarə: “Per cambiare un mondo costruito sul sistema patriarcale l’unica rivoluzione possibile sarà quella transfemminista e queer o non ci sarà. Come nel Settecento, ma con più paillettes”.

Marianna Gatta

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