Si svolgerà dal 17 agosto al 20 ottobre, nella cittadina sudcoreana, l’undicesima edizione della Biennale, quest’anno dedicata alla luce metaforica che può nascere dall’oscurità. Vera Mey e Philippe Pirotte, direttori artistici, ci svelano il concept e i progetti più interessanti.
Qual è il tema della Biennale di Busan 2024?
L’abbiamo intitolata Seeing in Dark, un paradosso, perché è fisicamente difficile per gli esseri umani vedere nel buio, ma ciò non significa che non sia possibile. Il buio è uno spazio noto e ignoto allo stesso tempo, è considerato terrificante, non diversamente dalla nostra attuale situazione contemporanea, eppure il nostro imperativo è immaginare un mondo “altro” come mai prima d’ora. Giochiamo con l’idea che siamo tenuti all’oscuro della realtà del nostro momento politico. Convenzionalmente, l’Illuminismo europeo è pensato in relazione alla “luce” e alla convinzione che la conoscenza appaia solo con la visibilità. Invece di temere l’oscurità, vediamo queste profondità come opportunità.
Spiegateci meglio
Siamo stati molto ispirati dall’idea di “utopie dei pirati” e di “illuminismo dei pirati” articolata da David Graeber, una figura chiave nel nostro pensiero. Queste comunità erano le prime forme di società autonome, che operavano oltre la portata dei governi e delle istituzioni, abbracciando una società multiculturale, spiritualmente tollerante, sessualmente libera e, occasionalmente, puramente egualitaria. Le decisioni venivano prese tramite un consiglio composto dai “pirati” più abili senza distinzione di cultura o colore. Questi esperimenti servirono da modello per gli aspetti migliori del movimento illuminista in Europa.
Il titolo della Biennale rende attivo e contingente il potenziale dell’atto di illuminare, un’azione nel qui e ora. L’oscurità è una componente sia dell’illuminazione piratesca (molti di loro operavano nell’ombra, ben lontani dai governi) sia dell’illuminazione buddista nel trovare un percorso verso la fine della sofferenza. Entrambe le tradizioni hanno ricche storie visive, molte delle quali interagiscono con la narrazione.
Cosa potete anticiparci sui progetti più rappresentativi che vedremo alla Biennale?
Abbiamo lavorato con Song Cheon, un monaco buddista del tempio di Tongdosa, già direttore del Museo del tempio di Tongdosa. Ha trascorso anni studiando la pittura buddista ed è particolarmente abile nel replicare e restaurare i dipinti tradizionali. Per la nostra Biennale sta creando un nuovo dipinto alto 10 metri, attingendo all’immagine di una lacrima del Bodhisattva e sperimentando con il video. Siamo entusiasti di facilitare questo tipo di sperimentazione per un artista che lavora all’interno di uno stile e di una tradizione spesso trascurati dalle conversazioni sull’arte contemporanea. Inoltre ospitiamo Eugene Jung, giovane artista nato a Busan e attualmente residente a Seul, che realizza installazioni su larga scala che guardano al dinamismo delle rovine contemporanee, in particolare all’epoca del tardo capitalismo. È emozionante riunire una serie di prospettive artistiche coreane e collegarle a pratiche internazionali che risuonano nel contesto di Busan, incluso quello dell’artista tongano John Vea, che lavora in performance, video e installazioni per esaminare le questioni riguardanti i lavoratori migranti. Ciò ovviamente rispecchia il contesto di Busan, città portual che ospita diverse comunità di immigrati.
Come avete selezionato gli artisti? Quali sono stati i criteri nelle loro pratiche che vi hanno portato a sceglierli?
Non siamo interessati alla “posizione” del mondo dell’arte o alle pratiche artistiche solipsistiche che possono esistere ed essere comprese solo all’interno del mondo dell’arte. Selezioniamo gli artisti perché il loro lavoro e la loro pratica hanno un’urgenza, che consente loro di esistere al di là dell’istituzione, che trova la sua rilevanza esistendo in un mondo aperto al dialogo con le comunità. Abbiamo selezionato gli artisti sulla base del fatto che alcuni di loro sviluppano pratiche legate all’attualità e altri per una raffinatezza formale che può fornire momenti di leggerezza all’interno dell’esperienza espositiva.
Naturalmente ci siamo basati anche sulle nostre ricerche e sul nostro lavoro del passato, con un punto di vista che spazia sull’Europa, il sud-est asiatico e sempre più sull’Asia interna e l’Africa.
Come interagisce la Biennale con la città di Busan? Esistono programmi specifici per ragazzi e studenti?
Per noi era importante collegarci alla storia di Busan in quanto città portuale, nonché luogo circondato da molte aree montuose e importanti templi buddisti, motivo per cui guardiamo all’intersezione fra il buddismo e le comunità dei “pirati”. Quando abbiamo iniziato le ricerche, siamo stati ispirati nel sentire come Busan avesse una storia di città operaia, nonché di rifugio dove le persone potevano trovare accoglienza durante i periodi di guerra. Abbiamo visto che molti artisti che vivono a Busan provengono da fuori. Busan è anche vicina ad alcune isole dell’Asia orientale che storicamente ospitavano alcune comunità di pirati e le isole più vicine hanno anche importanti comunità autonome di cui ci è piaciuto scoprire le storie.Circa i programmi per i giovani, parte della Biennale è fatta da artisti che interagiscono con il suono e alcuni di loro terranno speciali laboratori dove realizzare e suonare strumenti musicali. Bambini, studenti e tutti coloro che lo desiderano sono invitati a prendere parte a un’esibizione musicale dal vivo di brani dell’artista taiwanese Lin Chi-Wei. Inoltre, tutti i membri della comunità di Busan, siano essi bambini, studenti o cittadini, sono invitati a far parte dell’opera d’arte collaborativa di Nika Dubrovsky “Visual Assembly”.
Come descriveresti la scena artistica contemporanea dell’Asia orientale?
Dinamica! Storicista e sfumato secondo le diverse prospettive. È facile dimenticare quanto sia etnicamente, culturalmente e linguisticamente diversificata l’Asia orientale (per non parlare dell’Asia nella sua interezza). Esiste ovviamente un mercato dell’arte in divenire, che si manifesta principalmente attraverso l’arrivo di piattaforme di fiere d’arte internazionali. A noi interessa l’altro lato della storia, dall’artista sperimentale alle prime armi fino alla scena ormai radicata. Sembra che esistano molte tradizioni artistiche nell’Asia orientale, un mondo dell’arte composto da molti micro-mondi che fa ben sperare.
Quanto è forte la partecipazione occidentale, in termini di artisti e visitatori?
Sappiamo che l’ultima edizione della Biennale di Busan nel 2022 ha avuto un grande successo di critica nel giornalismo artistico internazionale. Ci sono un numero considerevole di artisti che hanno sede in Europa e negli Stati Uniti che prendono parte all’edizione di quest’anno e ci collegano meravigliosamente a continenti esterni, così come ad altre parti dell’Asia, del Pacifico meridionale e dell’Africa. Il mondo è molto connesso e una Biennale è una meravigliosa opportunità per vedere quelle opportunità di connessione e sovrapposizione che possono aprirsi ovunque.
Niccolò Lucarelli
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati