Biennale 2024. L’esperienza artistica non può essere (solo) pedagogia etica
Ciò che domina la mostra di Pedrosa è il trauma come fondamento dell’identità individuale e collettiva. Lasciando fuori però il mondo reale con la sua complessità
L’assegnazione, sabato 20 aprile, dei Leoni d’oro della Biennale 2024 al collettivo neozelandese Mataaho, come miglior partecipante, e all’Australia come miglior padiglione nazionale con il progetto Kith and kin di Archie Moore, hanno suggellato un’edizione che il curatore Adriano Pedrosa ha incentrato su un doppio versante: il recupero della dimensione globale, ovvero non eurocentrica, del modernismo novecentesco e le forme di “resistenza”, critica e decostruzione del dominio coloniale, razziale, sessuale ecc., attribuito perlopiù, se non esclusivamente, ai paesi e alle culture del cosiddetto “Occidente collettivo”, tanto al loro interno che nei confronti di quello che si autodefinisce ormai come Global South.
Su Stranieri Ovunque e Il Latte dei Sogni
Un’agenda culturale così impegnativa e apertamente orientata in senso woke al “significato” delle opere d’arte, alla loro efficacia politica, vera o presunta, al loro valore di testimonianza identitaria o di critica sociale, alla loro capacità di esporre e allo stesso tempo di dar senso ai grandi traumi individuali e collettivi dell’età contemporanea, non poteva in un certo senso che naufragare di fronte alle aspettative che essa stessa aveva generato. Stranieri ovunque / Foreigners Everywhere non cade nella mediocrità e nella verbosa pochezza della precedente edizione curata da Cecilia Alemani (con poche e isolate eccezioni), ma appare come un esercizio accademico, un po’ stanco e poco ispirato. Una sensazione che è facile verificare percorrendo i due luoghi della mostra – i Giardini e le Corderie dell’Arsenale –, dove una delle installazioni più ambiziose, la documentazione della storia di Puerto Rico di Pablo Delano, The Museum of the Old Colony, riprende stancamente il formato dell’archivio e invece di rivelatrice risulta pedante e ripetitiva, mentre le ceramiche di Nedda Guidi, esposte anche al Forte Marghera, appaiono confinate in un’agiografia femminista che poco lascia trapelare della concreta inscrizione dell’artista nel dibattito artistico del suo tempo.
La sezione sul modernismo internazionale
Una delle sezioni più attese della mostra era quella dedicata a figure periferiche, poco note o rimosse, del modernismo internazionale. Le loro opere assai raramente si elevano però al di sopra del temibile giudizio di “interessante” che pudicamente si assegna a lavori che replicano con qualche variante personale maniere e stilemi già troppo visti. Il formato scelto per la loro presentazione è per di più quello di un caotico Salon vecchio stile, che poco o nulla rivela delle avventure artistiche ed esistenziali che pure qui e là affiorano, come ad esempio nel caso del pittore indonesiano Affandi, il cui Autoritratto del 1975 è tra le poche cose notevoli di tutta la sezione.
Biennale 2024: tra arte contemporanea e mondo reale
Sarebbe certo ingeneroso affermare che tra i 331 artisti e collettivi presenti nella mostra internazionale non vi siano personalità interessanti e opere riuscite – come l’installazione di Anna Maria Maiolino nello shed posto al termine del percorso all’Arsenale – ma la sensazione è che sia ai Giardini che alle Corderie dominino tra i “viventi” soprattutto media tradizionali e soggetti e iconografie inoffensive, troppo spesso privi di mordente o dai modestissimi esiti formali. Dipinti e manufatti artigianali che nonostante tutte le “buone intenzioni” loro attribuite – come nel caso del Mataaho Collective – risultano spesso scialbi, anodini, privi di interesse, non memorabili. Il mondo reale, lì fuori, con il suo convulso consumo di immagini, la sua ambivalenza, i suoi perversi e sempre più determinanti meccanismi di coinvolgimento “sociale”, la sua polarizzazione e frammentazione, i suoi vertiginosi nuovi media, la sua violenza e la sua ipocrisia, non sembra trovare posto in questa Biennale. In mancanza di tutto ciò quel che domina è ancora una volta il trauma come fondamento dell’identità individuale e collettiva: se nell’età del narcisismo l’Io giunge a ritenere la propria affermazione l’unico atto politico possibile, l’arte deve infatti rappresentare il mezzo ideale per esporre i torti e reclamare giustizia. Di qui la sequela di opere definite dall’“identità” dell’artista e/o dal tema della sua opera, il tono di denuncia o di virtuosa indignazione di tanti lavori, l’uso ormai automatico di equivalenze ideologiche impermeabili a qualsiasi verifica sostanziale, il tokenism di tante partecipazioni.
Biennale 2024: il luogo della trasformazione è altrove
Si ripropone così, una volta di più, il cul-de-sac della falsa, dogmatica equivalenza tra trasformazione artistica e trasformazione politica, vera trappola mortale di una critica che si vuole “di sinistra” più o meno radicale. Se il “luogo” della trasformazione è sempre altrove, nel campo cioè del soggetto subalterno, ciò presuppone che sia possibile ottenere un accesso immediato a questa alterità trasformativa. I figuranti abbigliati con abiti tradizionali cherokee che danzavano di fronte al padiglione statunitense, quest’anno affidato all’artista Native American Jeffrey Gibson, riflettevano precisamente, con esiti purtroppo grotteschi, questa fiducia che a tratti assume i connotati di un “piano” parareligioso di salvezza.
Questa concezione, come ha argomentato Jacques Rancière in Lo spettatore emancipato, riposa tuttavia su un’illusione perniciosa, che si possa immaginare cioè un rapporto definibile tra “l’intenzione di un artista, una forma sensibile mostrata in un luogo d’arte, lo sguardo di uno spettatore e la condizione di una comunità”. Spostando sul piano simbolico conflitti reali (emarginazione, sfruttamento, razzismo ecc.) che restano inespressi sul piano politico, essa si nutre in fondo dell’idea che l’esperienza artistica sia riducibile a una pedagogia etica, rimuovendo così il nodo cruciale di una specifica efficacia estetica che resta ancora il termine fondamentale con cui valutare un’opera d’arte e la riuscita di una mostra.
Stefano Chiodi
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