Il contenutismo nelle opere d’arte è una forma di fuga dalla realtà
Affrontare didascalicamente e retoricamente un tema di attualità è di solito il modo migliore e più efficace di tenersene prudentemente alla larga
Il contenutismo è la malattia di quest’epoca: la malattia delle opere d’arte.
Lo ha spiegato molto bene il critico letterario Filippo La Porta in un articolo recente dedicato alla dozzina di autori finalisti al premio Strega: “Nei 12 dello Strega la presenza di uno ‘stile’, di una lingua espressiva oltre che comunicativa, di una voce personale – cioè la vera differenza tra la letteratura e ciò che non lo è (articoli di giornale, sceneggiature, diari, inchieste…) – a me sembra piuttosto rara e in fondo non più richiesta. (…) Non voglio sembrare ingeneroso. Parlo solo di una tendenza generale, di una (relativa) svalutazione del medium della scrittura all’interno della letteratura contemporanea”, citando come uniche eccezioni Dario Voltolini, Tommaso Giartosio e, almeno in parte, Donatella Di Pietrantonio (“L’Unità”, 14 aprile 2024, p. 11).
Il contenutismo nell’arte
Hai detto niente. Se il ‘medium della scrittura’ viene svalutato all’interno della letteratura, direi che abbiamo un problema – e piuttosto serio, anche. Ora, come al solito, il medesimo discorso possiamo estenderlo anche ad altri territori culturali: e, ovviamente, anche all’arte visiva. La questione del contenutismo è sotto gli occhi di tutti (una volta, non molto tempo fa, si sarebbe detto “di scottante attualità”). Moltissima arte di questi anni e di questi giorni fa leva sul ‘messaggio’, sul contenuto – meglio ancora se veicolato da artisti con una storia personale interessante, accattivante, in grado di conferire automaticamente validità all’opera (e non è un caso che anche per gli scrittori recenti, italiani e non, valga lo stesso tipo di atteggiamento e di proiezione nei confronti del mondo esterno).
Del resto, chi ha visitato Foreigners Everywhere / Stranieri ovunque, la mostra centrale curata da Adriano Pedrosa e appena inaugurato ai Giardini e all’Arsenale della Biennale di Venezia, ha avuto modo di sperimentare in prima persona questa tendenza, ormai con una sua storia già abbastanza corposa e articolata.
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Contenutismo vs Stile
Il contenutismo, dicevo: anche nel caso delle opere che si concentrano su ciò-che-stanno-dicendo, sui temi di cui parlano (e già il fatto che un’opera d’arte si disponga a “parlare di temi” dovrebbe insospettire e mettere in guardia…), lo stile passa decisamente in secondo piano. E quindi, si vira verso una sorta di artigianato rivisto e sterilizzato, o verso un archivismo privo dello slancio concettual-critico degli anni Sessanta e Settanta e Novanta, e fattosi maniera da un ventennio abbondante. Lo stile (anche qui, una volta, non molto tempo fa, si sarebbe detto “la forma” …) scompare: scompare perché non ce n’è più bisogno, perché è visto come un intralcio o un inutile orpello. Come una maleducazione.
Queste opere rappresentano quindi l’esatto equivalente di quei romanzi scritti in una lingua piatta, anonima, senza alcuna increspatura, già pronta per essere trasferita nella serie tv o nel film, come se lo scrittore si limitasse “ad avere una potente linea narrativa” da far sviluppare eventualmente agli editor, come afferma La Porta: che è esattamente ciò che avviene oggi, in moltissimi casi, nella letteratura nazionale e internazionale.
La forma come ostacolo
Lo stile, la forma, sono effettivamente un ostacolo se l’obiettivo è dire ciò che hai da dire nella maniera più piana, piatta e chiara possibile, se devi enunciare uno slogan o l’equivalente di un post, di una storia sui social: peccato che l’opera non funzioni affatto in questa maniera. L’opera d’arte non dice né enuncia né comunica proprio niente: lo fanno solo le cattive opere.
Il contenutismo, inoltre, si lega in maniera solo apparentemente paradossale al rifiuto categorico di confrontarsi con il proprio tempo, ed in generale con il tempo: è una forma singolare di escapismo. Se l’opera infatti decide che deve ‘parlare di un tema’, di solito non sta facendo la cosa che le verrebbe più naturale: essere quel tema, farsi attraversare cioè dal proprio tempo. Jackson Pollock non parlavanei suoi dipinti della bomba atomica, così come Francis Bacon non diceva l’angoscia dell’esistenza e Judy Chicago o Carla Accardi non trattavano il femminismo. Per dire. Ma, di questo, avremo modo di parlare più diffusamente in seguito.
Affrontare didascalicamente e retoricamente un tema di attualità è di solito il modo migliore e più efficace di tenersene prudentemente alla larga. Non ci sono opere meno politiche di quelle che si dichiarano apertamente politiche; non ci sono artisti meno coraggiosi di quelli che sbandierano ai quattro venti il proprio coraggio.
E d’altra parte, qualcuno ha già fatto notare come lo stesso “stranieri ovunque” sia un lemma neanche troppo sottilmente discriminatorio, o quantomeno paternalista: stranieri, infatti, rispetto a chi? E a che cosa? E perché non magari, che so, “sentirsi a casa propria ovunque”? Lo dice pure Ghali nella canzone vincitrice morale dell’ultimo Sanremo: “Non mi sento tanto bene, però / Sto già meglio se mi fai vedere / Il mondo come lo vedi tu / Non mi serve un’astronave, lo so / Casa mia o casa tua / Che differenza c’è? Non c’è / Ma qual è casa mia? / Ma qual è casa tua? / Ma qual è casa mia? / Dal cielo è uguale, giuro”.
Appunto: casa mia o casa tua, che differenza c’è? Non c’è.
Christian Caliandro
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Christian Caliandro
Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…