Integrati o disintegrati? Afrodiscendenti e paesaggi raccontati a Reggio Emilia da Silvia Rosi. L’intervista
Apre alla Collezione Maramotti la prima mostra istituzionale della finalista del MAXXI Bulgari Prize 2022, che ha presentato una nuova serie di opere. L’intervista alla fotografa italiana di origini togolesi
È una celebrazione “in casa” quella che porta un nuovo corpus di opere della fotografa Silvia Rosi (Scandiano, 1992) alla Collezione Maramotti di Reggio Emilia, in concomitanza con il Festival Fotografia Europea 2024. L’esposizione, la prima mostra personale istituzionale nel Paese dedicata all’artista italiana di origini togolesi, è concepita appositamente per lo spazio di Via Fratelli Cervi (nella sede storica di Max Mara) e include, oltre a un nucleo di fotografie d’archivio raccolte dall’artista in Italia tra il 2023 e il 2024, 20 nuove opere fotografiche e immagini in movimento: è la poetica (e politica) serie Disintegrata nel paesaggio. La rilettura dell’ordinario e la sua reinterpretazione tornano qui al centro della ricerca dell’artista, già salita agli onori della cronaca per il suo lavoro sugli album di famiglia che racchiudono la quotidianità di chi è giunto dall’Africa in Italia prima del Duemila. Di cui l’artista mostra anche lo “sfilacciamento” identitario che segue il viaggio: “Mia madre mi raccontava che, da integrata, era diventata disintegrata”, ricorda Rosi. Da cui il titolo stesso della mostra.
Silvia Rosi e la sua serie Disintegrata
Finalista del MAXXI Bulgari Prize 2022, Rosi vive e lavora tra Italia, Togo e Londra. In questa mostra, ospitata al primo piano del ricercato spazio reggiano, l’artista parte dalla propria eredità familiare togolese esplorando i concetti della memoria e dell’auto-rappresentazione in una forma frastagliata, scucita e ricucita a posteriori (non senza iati e “scolorimenti”).
Nonostante gemmi dalla sua storia personale, questa “disintegrazione” è un sentimento comune alla comunità italiana di cittadini afrodiscendenti, che qui partecipa indirettamente con i propri ricordi, raccolti in una teca di plexiglas. Qui le fotografie “fanno volume”, dice Rosi, ma non sono interamente visibili e comprensibili: resta sempre la voglia di sapere di più, di sbirciare e di connettere. Ecco che torna, ancora una volta, il concetto di “brano”, di frammento, che rivediamo nel video di chiusura: l’artista è ripresa mentre ascolta con le cuffie la lettura delle missive tra familiari separati dalla distanza. L’identità personale, l’appartenenza familiare, il distacco generazionale, e ancora l’identificazione di genere, lo status di classe, l’appartenenza a una comunità sono i grandi temi di questa ampia ricerca.
Colloquio con la fotografa Silvia Rosi
Da dove nascono i nuovi lavori di ‘Disintegrata nel paesaggio’?
Il lavoro è legato al concetto di paesaggio, di come questo assorbe l’individuo: quando io osservo l’album di famiglia, ho sempre dei riferimenti spaziali. Qui vado completamente a rimuoverli, lo spazio diventa grezzo e neutro, e non sovrasta l’individuo. Queste opere raccontano molto sul fatto di “esistere”, e di farlo all’interno di un ambiente che pur essendo normale non permette di sentirsi a proprio agio perché c’è sempre un’interferenza di fondo. Come persone nere, c’è sempre questa idea di non potersi godere il paesaggio. Perciò non registro il paesaggio in sé, ma la presenza al suo interno.
La raccolta delle storie di altre persone afrodiscendenti è una nuova parte del tuo lavoro?
No, il progetto nasce dall’idea di riflettere sulle esperienze della mia famiglia e mostrare come possa diventare una cosa più collettiva, per questo mi sono munita di ricercatori che mi hanno aiutata a raccogliere queste immagini. Però non fa parte della mia pratica, è solo un modo per parlare della dimensione familiare.
Parli spesso di tua madre, di come la sua storia dia forma al tuo racconto della diaspora: tutto inizia da lei?
Sì, è l’ispirazione per la maggior parte dei miei lavori. È lei a raccontarmi quelle storie familiari che non ho vissuto personalmente. Penso che uno dei focus principali del mio lavoro sia la conversazione che ho con lei: sono conversazioni non semplici, ma che si riescono ad avere con l’espediente della fotografia.
Giulia Giaume
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