Anacronismi a Cinecittà
Perché il mondo della cultura è così resistente al cambiamento? Ci compiacciamo che la cultura sia conoscenza, che sia lo strumento di libertà e di scelta. Poi però tutti quelli che vivono (economicamente) di cultura si arroccano su posizioni perlomeno anacronistiche.
La situazione creatasi a Cinecittà Studios è paradigmatica. I media stanno facendo un gioco sporco, di difesa delle ideologie e non dell’informazione. “Abete sì, Abete no”: sono questi i due schieramenti, perché l’imprenditore-manager è il decisore sugli sviluppi degli Studios (in affitto dalla Cinecittà pubblica) e non tutti credono ai suoi intenti dichiarati. Il servizio che i media avrebbero l’obbligo invece di dare è quello di illustrare che il problema – che sta facendo il giro del mondo – intanto si limita agli interessi di poche decine di persone (non sono le centinaia di migliaia di esodati, ad esempio) e non mette in discussione il posto di lavoro, bensì lo spostamento in altro luogo: dalla Tuscolana al costruendo parco tematico alle porte di Roma. Invece i “privilegi” hanno spinto alcune decine di persone a uno sciopero estenuante a cui i media hanno risposto invogliando, nella disinformazione e forse anche nella pretestuosità, molti artisti a prendere pubbliche posizioni.
Si temono la chiusura degli Studios, la definitiva perdita in Italia di produzione e cultura cinematografica. Ma gli Studios vanno economicamente male da anni. Il sistema è cambiato, e non oggi. Le produzioni italiane sono poche perché gli spettatori sono ancora meno. Quelle straniere, vuoi per i prezzi vuoi per la facilità di spostamento, vanno dove conviene (e non è solo una questione finanziaria, ma anche di qualità dell’accoglienza e dei servizi accessori, ad esempio). Le stesse produzioni italiane seguono le opportunità offerte dal mercato. Le film commission sono state una bella risposta, ma evidentemente non sufficiente. Se di conseguenza chi appartiene alla filiera produttiva non offre forme e modalità diverse di servizio e accesso, questo implode. Qui non si paventa la chiusura degli Studios, ma un loro ripensamento (è indubbio che siano ad esempio troppo grandi per la quantità di domanda potenziale) così come ciò che offrono e i relativi prezzi.
Perché allora chi vi lavora (sul posto protestano le maestranze, ma gli artisti danno manforte con la loro ben diversa attenzione mediatica) non capisce che il mondo è cambiato e continua a cambiare, che bisogna dare delle risposte (magari per tempo, anche) per non soccombere, per iniziare a crescere, per fare sviluppo?
Fabio Severino
vicepresidente dell’associazione economia della cultura
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #9
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