La nostra rubrica sulla poesia contemporanea prosegue con un giovane poeta esordiente, Giammarco di Biase (Foggia, 1993), i cui versi sono comparsi su La Repubblica e Avamposto e che nel 2023 ha fatto uscire la sua prima raccolta S’aggrinza un astro per la casa editrice indipendente Ensemble. In quest’intervista ci siamo confrontati sulla sua visione artistica e sulla genesi di una poesia così classica e ancestrale in tempi sempre più votati all’effimero.
Intervista a Giammarco di Base
Giammarco, devo dirti che questo nostro presentarci mi risuona come un déja vu, una seconda volta, alla luce dell’esperienza confidenziale che è stata leggere S’Aggrinza un astro. Ci parli di com’è nato questo libro e di quanto questa riduzione della distanza tra autore e lettore sia stata intenzionale?
“Riduzione” e “confidenza” sono due parole che amo molto e non è la prima volta che vengono usate in riferimento alla mia poesia. S’aggrinza un astro nasce come manoscritto bruciandone un altro. All’inizio scrissi una raccolta arbitraria dal titolo Solo le bestie, che odiai da subito perché era fitta di parole, ed è proprio nel rancore nei confronti di quest’opera poco immediata e artificiosa che è arrivato lo studio: non si può scrivere senza studiare approfonditamente. Prosa e poesia non vivono soltanto di talenti, hanno bisogno di concime altrui per garantirsi. Soprattutto la poesia esige la parola scalza, lo spazio bianco, la perdita dell’alfabetizzazione consumistica. Si scrive sempre meno, si scrivono “le parole importanti”. Penso a Nanni Moretti, ogni volta che scrivo, e al suo Palombella rossa.
“Il pensatore dice l’essere, il poeta nomina il Sacro” sosteneva Heidegger. Sei d’accordo? Qual è il tuo rapporto con il Sacro e cosa ti ha indotto a renderlo protagonista dei tuoi versi?
Hai menzionato gran parte della filosofia che apprezzo, insieme a Deleuze, Bergson e Spinoza. S’aggrinza un astro è diviso in sezioni, la prima parte, Comparse, è legata alla mia famiglia, al mio intimismo. Protagonisti si muove in tutt’altra direzione, alcune mie poesie somigliano ad haiku: è l’universalità, il Sacro a farla da padrone. Controfigure è una sezione violenta, invece, lo sbarramento nei confronti di Dio e il cuore laico della mia intera opera è da trovarsi lì. Dopo un anno e mezzo la mia poesia è cambiata molto, si è desertificata ancor di più e ho adottato molte forme metriche che per assurdo l’hanno avvicinata più ad un Dio. Ieri ti avrei detto: la mia opera è laica. Oggi ti dico, nello studio approfondito dei testi sacri, soprattutto della Bibbia e del Corano, che la poesia mi ha reso potentemente religioso.
Un altro aspetto che mi incuriosisce è quello delle autrici e autori che ti hanno ispirato. Per quanto il tuo stile riveli una certa passione per la poesia lirica, mi chiedo se i tuoi versi nascondano anche suggestioni provenienti dalla cultura pop o da arti esterne alla poesia. Se questo è vero, quali opere o autori hanno contribuito maggiormente in questo senso?
La mia prima vera passione è stata il cinema. Oltre a poeti che mi hanno formato come Mario Benedetti, Roberto Carifi, Cees Nooteboom, Paul Celan, Trakl, Arsenij Tarkovskij, ho pensato S’aggrinza un astro già dalla copertina e dal titolo facendomi ispirare da un saggio sul cinema di Bela Tarr e da un altro sulla filosofia dell’immagine di Michelangelo Antonioni. La mia raccolta di poesie deve tantissimo a queste teorie preziose perché i miei versi, come il cinema che ho citato e che mi ha formato, vivono di un eterno presente. È nelle mie pagine, in Controfigure, che si muovono i nuovi testimoni del nostro tempo, gli idioti, i folli.
C’è anche tanta natura nelle tue poesie, tanta terra, tanti paesaggi. Quali luoghi hai in mente, esistenti e non, quando scrivi di natura? E quanto contano per te?
Cerco il contatto con la natura, continuamente, ma riesco sempre poco ad immergermi in contesti che non siano quelli della città e dell’alienazione. La natura, ecco, per me è una speranza. È un rifugio inespresso, è il “perdersi nella foresta”. Studio molto le piante, mi nutro della loro semantica e del loro lessico, la mia poesia alle volte è corrotta dal tarassaco e dalla cicuta, dall’anemone e dall’ortica. Lo devo, soprattutto, ai miei studi di facoltà dove ho affrontato esami di archeobotanica.
Una poetessa performativa beneventina, Antigone (Eugenia Giancaspro), afferma in uno dei suoi pezzi che “la poesia deve bruciare”. Parlando di bruciare: il tuo libro, che pure in molti punti vibra in direzione della morte, presenta anche frequenti vampate di vitalità. Dico vampate poiché anche tu, il fuoco, lo chiami in causa più di una volta. Quindi ti chiedo: è un fuoco mortale o vitale, quello della poesia?
Forse S’aggrinza un astro è un’opera di fuoco mortale: i miei sono versi all’infuori, che escono fuori come incandescenze. Mi verrebbe da dire che la poesia è un fuoco misto; non potrebbe essere altrimenti perché unisce il nostro istinto ad una forma più religiosa di parvenza. Questi incendi, questi fuochi, nella poesia sono mortali e vitali, ma sia lo scrittore che il lettore sono spettatori davanti schermo nero: la poesia nasce dal sentore di incendi nascosti.
Maria Oppo
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