Tutti i colori di Mario Testino. Intervista al grande fotografo
Celebre fotografo di moda e non solo di moda, Mario Testino si racconta in questa intervista. Dalla sua identità culturale mista all’idea di studio fotografico portatile, in occasione di un’importante mostra a Roma
“Per qualcuno andare in pensione vuol dire dedicarsi al giardino” afferma Mario Testino (Lima, 1954) in occasione della mostra personale Mario Testino – A Beautiful World curata da Patrick Kinmonth, prodotta e organizzata da Arthemisia in collaborazione con Domus Artium Reserve con il supporto dell’Uzbekistan Art and Culture Development Foundation nelle sale al primo piano di Palazzo Bonaparte a Roma. “Il mio giardino è questo progetto che ho iniziato nel 2017 viaggiando in 30 paesi del mondo. Lo continuerò perché ho ancora tanto da vedere!”. In questo “mondo bellissimo” costumi, colori, ritualità, tradizioni si fondono insieme restituendo, attraverso centinaia di opere fotografiche, una visione caleidoscopica dal sapore etnografico in cui è centrale l’essere umano. Il grande interprete della fotografia di moda, insignito dell’Ordine dell’Impero Britannico e Cavaliere della Legion d’Onore – tra i suoi scatti più celebri quelli di Lady D, Kate Moss, Madonna – si esprime nella libertà assoluta, testimone di una bellezza che racconta anche l’identità di popoli ed etnie, dai Sahrawi nel deserto del Marocco alle donne di Lagartera in Spagna, dal Ballo dei Pastori a Balestrate in Sicilia al villaggio Rakubi in Etiopia, dal Giappone del teatro Nō a Kinshasa con il costume dell’artista congolese Eddy Ekete Mombesa, che ha realizzato usando le linguette delle lattine riciclate. “L’appartenenza attraverso l’esibizione è qualcosa di veramente magico, sia che avvenga attraverso l’abbigliamento o il travestimento o la pittura corporea può trasformarti e allo stesso tempo connetterti ad una comunità di persone di mentalità affine”.
Intervista a Mario Testino
In questa sorta di giardino, come ha definito il progetto A Beautiful World, identità e stupore sono il fil rouge. Come si bilanciano?
Sono affascinato da qualsiasi cosa che non ho visto. Tutti i giorni della mia vita penso a cosa non conosco e potrei conoscere. Questo progetto mi ha permesso tutto ciò. In Paraguay, ad esempio, mi sono ritrovato nella comunità mennonita di cui non avevo mai sentito parlare. Mi ha colpito molto che in quella comunità religiosa si vestano tutti nella stessa maniera. Mi piace documentare le tradizioni perché diventano immagini abbastanza forti di per sé. In A Beautiful World, in particolare, mi piace molto vedere le mani delle persone. Se è vero che ci sono alcune foto che sembrano di moda, in realtà in quel campo tutto è molto controllato. Nella moda c’è la manicure che passa ore a pulire le unghie, poi c’è il trucco, i capelli. Qui, invece, sono mani di donne che lavorano, reali.
Quest’idea di realtà si ricollega anche alla collezione di abiti che ha fotografato nel 2007 sulle Ande peruviane, nella regione di Cuzco…
È così che è cominciato questo progetto. Avevo chiesto alla mia squadra di produzione in Perù di cercarmi dei vestiti tradizionali per fare un servizio di moda. L’idea era quella di due ragazze che arrivano in Perù con lo zaino in spalla proprio nel momento delle feste tradizionali. Quegli abiti erano incredibili! Quando me li portarono mi resi conto che era l’intera collezione di centocinquanta vestiti diversi che appartenevano ad un signore. A quel punto mi misi a documentarli uno ad uno, chiedendomi perché il mio Paese non si curasse di quegli indumenti, che non venivano considerati come qualcosa di valore ma semplicemente abiti della gente che vive nelle montagne. Vederli tutti insieme è un qualcosa di magico.
L’immersione nei colori è certamente la prima cosa che colpisce, ricordo in un viaggio di moltissimi anni fa in Perù, in particolare sul lago Titicaca, l’intensità dei colori delle «polleras» indossate dalle donne…
Il colore è molto interessante, eppure quando ho iniziato a lavorare nella moda la maggior parte delle persone erano inglesi, francesi, italiane o americane e nella loro cultura i colori non erano così forti come lo è nella mia. Solo adesso mi sento veramente libero di lavorare con i colori che amo, prima le redattrici mi dicevano “troppi colori”. Come se il colore fosse qualcosa di negativo, volgare, associato al popolo. Qual è il problema? È geniale se è del popolo!
Parlando del suo background culturale e formativo – è nato e cresciuto a Lima – quanto è stato importante portare con sé quest’identità quando, nel 1976, decise di trasferirsi a Londra?
All’inizio della mia carriera ho lottato molto perché mi volevo assimilare agli inglesi, ma il giorno in cui mi sono reso conto che non andava bene perché non ero inglese e non lo sarò mai, ho cominciato a guardarmi indietro per portare nel lavoro le mie tradizioni, la mia vera identità. Ovviamente non è stato facile perché è un modo di guardare diverso, poi però è piaciuto. Oggi vediamo che il mondo è pieno di stranieri, tanto che Stranieri Ovunque è anche il titolo della Biennale d’Arte di Venezia di quest’anno di cui è direttore artistico il mio amico Adriano Pedrosa. Ma alla mia epoca ero l’unico fotografo peruviano. Non c’erano altri sudamericani, tutti gli altri erano francesi, inglesi, italiani, americani.
Parlando sempre di identità, lei è un peruviano il cui papà era italiano e la mamma per metà spagnola e per l’altra irlandese…
I miei genitori non avevano un grande interesse per il passato e l’identità. Erano focalizzati sul presente. Le ricerche le ho fatte io, perché volevo vedere la mia provenienza. Le origini della famiglia sono in buona parte europee ma spero di essere peruviano almeno per un quarto.
Tornando al progetto A Beautiful World, alla base c’è molta ricerca ma l’idea dello studio fotografico portatile rimanda a quello di Irving Penn. C’è una possibile relazione?
Non è solo una relazione, mi sono ispirato a lui al cento per cento dopo aver visto un film in cui montava una tenda dove fotografava. Mi dissi che avrei fatto lo stesso. Naturalmente la maniera di fotografare e di vedere è diversa, perché la mia curiosità è un’altra rispetto a quella di Irving Penn. Penso che il fotografo di moda che riesce ad avere una certa posizione in quel mondo abbia quasi una responsabilità nel far vedere agli altri quello che loro non riescono a vedere. Siamo molto fortunati perché viaggiamo, vediamo case belle, feste incredibili. Nel mio lavoro ci sono tante referenze ovvie e chiare. Dove impariamo se non vedendo quello che ha fatto prima di noi chi fa la nostra stessa professione? Mentre, però, nel mondo dell’arte le referenze sono valide e celebrate, in quello della moda molte volte veniamo criticati perché facciamo qualcosa che somiglia al lavoro di un altro. Io penso, perché no?
In un progetto come questo, più o meno costruito, qual è la valenza dell’imprevisto?
L’imprevisto c’è sempre, non se ne può fare a meno. Posso, magari, preparare tutto come voglio ma poi c’è una tempesta, non c’è la luce che cerco oppure la persona da fotografare non arriva con i vestiti che aveva nella foto che mi era stata mostrata, semplicemente perché li ha dimenticati. Anche quando lavoravo come fotografo di moda ho sempre detto che prepari tutto, lo perfezioni, ma poi lo lasci alla vita.
Un’ultima considerazione sulla luce naturale, considerando che l’intero progetto è scattato in questo modo…
Anche nella fotografia di moda ho sempre usato la luce naturale. Sono ossessionato dalla luce naturale perché è l’unica luce vera. Diciamo che c’è una differenza tra la luce naturale che non permette di fare nulla e quella che è la luce principale e va gestita. Devo gestire le ombre, la profondità, il viaggio della luce, il suo arrivare da un punto e poi il suo cambiamento, l’andare indietro. Molte volte quello che succede dietro è più bello di quello che succede davanti, dove c’è la luce. Bisogna saper usare questa luce. In molte foto invece di avvicinarmi alla fonte, mi allontano per vedere come avviene il suo passaggio.
Manuela De Leonardis
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