La storia di Otto Hofmann, astrattista senza dogmi. La mostra a Lucca
Pittore e designer la cui vicenda attraversa gran parte del Novecento, Otto Hofmann è però ancora oggi sconosciuto al grande pubblico. La Fondazione Ragghianti lo riscopre attraverso una ben articolata mostra di studio in 120 opere, che ne ripercorre l’intera carriera artistica, dagli inizi in Germania ai decenni italiani
“I miei dipinti non sono esperienze romantiche, atmosfere letterarie e tantomeno azioni politiche, bensì dipinti, nient’altro che questo. Sono nati sul terreno di riflessioni e invenzioni formali, parallelamente al confronto tra uomo, mondo e tempo”. Così si espresse Otto Hofmann (Essen, 1907 – Pompeiana, 1996) nel novembre 1932, a margine di una sua personale presso la Jena Kunstverein, pochi mesi prima dell’ascesa al potere di Adolf Hitler. Parole che rispecchiano la condizione di un artista votato all’arte totale, in un decennio, gli Anni Trenta, in cui la democrazia e la libertà mostravano più di una crepa, e l’intera società europea era travolta da ondate di razzismo, nazionalismo e bellicismo.
Gli inizi di Otto Hofmann
Cresciuto nella Germania di Weimar (un quindicennio di democrazia che favorì lo sviluppo di un clima culturale assai variegato, dal cinema alla letteratura, dalla musica all’arte), dopo gli studi al Politecnico di Stoccarda, nel 1927 si trasferì a Dessau per frequentare il Bauhaus, dove insegnavano, fra gli altri, Oskar Schlemmer, Josef Albers, Paul Klee e Wassilij Kandinskij, dei quali Hofmann seguì vari corsi di pittura che lo iniziarono alle molteplici potenzialità combinatorie di colore, forma e superficie. L’astrattismo era il “marchio di fabbrica” del Bauhaus, e permeò anche lo stile pittorico di Hofmann; questi, tuttavia, lo seguì in maniera assai personale, distaccandosi dal Concretismo predicato da van Doesburg e avvicinandosi invece alla morbidezza formale di Jean Arp, anche se la lezione di Klee e Kandinskij rimase sullo sfondo di molte sue opere.
L’astrattismo di Otto Hofmann
Nei primissimi Anni Trenta, Hofmann andava definendo il suo peculiare astrattismo, caratterizzato da simboli archetipici – la scala, la sfera, la nuvola, la croce, la stella –, specchi dell’essenza spirituale dei paesaggi che costituivano i suoi soggetti principali. In questi anni la natura di Hofmann è fantastica, morbida e fluttuante, tradotta in colori calibrati e in accostamenti cromatici assai delicati. Ma l’artista era anche capace di guardare all’Europa, e assorbì in parte la lezione del solare surrealista Jean Mirò. La sua carriera era in piena ascesa, e molti suoi quadri spiccavano adesso nelle collezioni contemporanee dei musei di Braunschweig, Hannover, Erfurt e Jena, ma dal gennaio 1933, una cappa di oppressione era caduta sulla Germania, e a breve si stenderà su tutta l’Europa. I primi a farne le spese furono ovviamente gli artisti tedeschi, fra i quali lo stesso Hofmann, che era anche membro del partito comunista; nella primavera del 1933, in seguito ad alcuni suoi articoli apparsi sul quotidiano Das Volk di Jena, subì diverse aggressioni a seguito delle quali decise di rifugiarsi in Svizzera, dove a Zurigo incontrò Jean Arp e altri esponenti del Dadaismo, dai quali prenderà ispirazione per i Nacht Collagen. Rientrato in patria nel 1935 visse appartato nella cittadina di Hainichen, dove lavorò con il ceramista Otto Lindig, dando così sfogo alle sue qualità di designer; soluzione obbligata in quanto i nazisti gli avevano notificato il divieto di dipingere. Ma la pittura, seppur clandestina, rimase sua compagna, e la seconda metà degli Anni Trenta ci racconta un Hofmann sempre più intento a sondare le possibilità delle composizioni astratte, arrivando nel 1938 a sfiorare uno stile quasi “fumettistico”.
La tragedia della guerra con gli occhi di Otto Hofmann
Nel 1939 Hofmann fu richiamato nell’esercito e inviato su vari fronti; dopo aver combattuto in Francia e in Grecia, prese parte all’Operazione Barbarossa, con al quale Hitler pensava di conquistare l’Unione Sovietica. Di straordinaria rilevanza i documenti che provengono dal fronte russo: accanto ad alcune fotografie del fronte scattate dallo stesso artista, in mostra sono esposti delicati acquerelli e pastelli realizzati su carta da lettere, di quelle stesse lettere indirizzate alla moglie e agli amici cui tentava, attraverso l’arte, di rendere meno pesanti l’angoscia e la lontananza. Ma l’arte fu un mezzo per alleviare anche le proprie pene, per dimostrare a se stesso che, pur in mezzo all’orrore, conservava intatta la sua umanità. E alla violenza della guerra cerca quasi sempre di opporre la bellezza del paesaggio russo, con la solennità della tundra e delle paludi, l’aura fiabesca delle cattedrali dalle mille cupole dorate e dei villaggi dei contadini; un universo dai colori brillanti puntualmente trasferiti sulla carta. L’astrattismo si affianca alla figurazione, ne nascono atmosfere leggere e sognanti che ricordano quelle di Marc Chagall, e che tradiscono il legittimo bisogno di Hofmann di trasferire su una dimensione più accettabile la violenza della guerra. In filigrana, tornano alla memoria le riflessioni che Remarque attribuisce a Paul Bäumer nella Prima guerra mondiale, a conferma della tragicità dei ricorsi storici, ma anche di una sia pur tenue fiamma di umanità che, anche nelle condizioni più dure, rimane accesa. Peculiarità della mostra alla Ragghianti è l’aver approfondito questo capitolo che, seppur tragico, fu importante nella produzione artistica di Hoffman e permette di apprezzare la sua sensibilità di uomo in un contesto così drammatico.
Otto Hofmann e il dopoguerra
La Germania del dopoguerra era un Paese ormai lacerato, anche geograficamente a causa della rapida divisione geografica e la sottomissione a due differenti sfere d’influenza: quella statunitense a ovest, quella sovietica a est. Hoffman, che nel 1946, dopo un anno di prigionia in Unione Sovietica si stabilì a Rudolstadt, in Turingia, ricadeva sotto quest’ultima, ma la crescente insoddisfazione per la situazione politica lo spinse a rifugiarsi a Berlino Ovest, una fuga precipitosa che lo costrinse ad abbandonare i suoi averi e la quasi totalità delle sue opere. Fu per lui una spinta a scoprire nuove possibilità artistiche; a differenza, ad esempio, di Hans Hartung che purtroppo portò sempre dentro di sé le ferite fisiche e morali della guerra, Hoffman seppe continuare a guardare alla vita. Un importante nucleo di opere su carta lo realizzò con il carboncino, ma non fu l’unica sperimentazione perché aggiunge la grammatica dell’arte astratto-concreta al suo linguaggio metafisico e favolistico. Frequentando Parigi, Bruxelles, la Costa Azzurra, si teneva al corrente delle nuove avanguardie europee, e mai si stancò di perseguire quelle invenzioni formali che già nel 1932 facevano parte del suo “credo artistico”.
Il trasferimento in Italia
La dimensione del paesaggio gli rimase sempre nell’anima, per questo nel 1976 si trasferì in Italia, a Pompeiana, sulla Riviera Ligure, attratto dalla mitezza del clima, dalla bellezza del paesaggio e, come già Monet nei dintorni di Bordighera nel 1884, interessato a tradurre in pittura i particolari effetti di luce creati dalla natura marina. La luce è protagonista di questa stagione artistica, segna il confine fra reale e immaginario, e dalla tela emergono quelle sublimi atmosfere montaliane che inducono a “meriggiare” all’ombra dei propri ricordi, sulla spinta di una coreografia di musicale levità. Nel complesso, la mostra lucchese racconta in maniera esauriente l’attività di un artista che volle sempre essere un uomo libero, attraverso una significativa selezione di opere e un allestimento elegante, che non “soffoca” le opere bensì permette di apprezzarle appieno nella loro luminosità. Una selezione di documenti (lettere, cataloghi, fotografie) arricchisce la mostra contestualizzando l’artista nelle tappe più importanti della sua carriera.
Niccolò Lucarelli
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