Fotografia, guerra e memoria. Intervista alla fotografa Yvonne De Rosa
La mostra personale della fotografa Yvonne De Rosa a Gorizia rielabora il diario e la lettera alla madre di un giovane soldato. Un toccante lavoro di cui ci ha voluto parlare in questa intervista
Era un vecchio laboratorio di borse, nel quartiere napoletano di Foria, lo studio fotografico di Yvonne De Rosa (Napoli, 1975). “Lo studio è il mio cervello, contiene le mie idee – tutte insieme – forse un po’ disordinate”, afferma la fotografa parlando di questo suo luogo privato dove ama rimanere per ore e ore. Magazzini Fotografici, invece, nasce con un’altra finalità: è uno spazio no profit pubblico con sede nell’antico Palazzo Caracciolo D’Avellino che De Rosa ha fondato e dirige dal 2015, aprendolo alla città partenopea e alla divulgazione dell’arte della fotografia con uno sguardo internazionale. “Nello studio c’è anche la camera oscura. Spesso, infatti, nei miei progetti c’è un passaggio che la riguarda”. Anche in Corrispondenze, un lavoro iniziato nel 2020 e in procinto di essere concluso (è stato esposto, tra le altre sedi, in Iran, nel 2020, all’Hasht Cheshmeh Art Space di Kashan), alcune vecchie fotografie, trovate in un carteggio epistolare dei primi del Novecento, sono state stampate a contatto in questa camera oscura dai negativi originali di vetro. “La camera oscura protegge, dà il tempo di pensare, valutare. Il contatto fisico con la materia ha ancora senso per me, chiaramente non ha nulla a che vedere con la verità da riportare è più una situazione meditativa”.
“A mia madre”, il libro e la mostra di Yvonne De Rosa
Memoria e ricordo, scrittura e fotografia sono temi centrali della poetica di Yvonne De Rosa: emergono anche nell’ultimo lavoro, il progetto editoriale A mia madre (il libro è stato pubblicato da Roberto Nicolucci Editore nel 2022), il cui titolo trae ispirazione dalle pagine del diario di un giovane soldato, trascritto dalla fotografa, che si rivolge alla mamma che è anche la destinataria della lettera che chiude il cerchio temporale. Nata in un momento successivo, l’omonima mostra è attualmente esposta allo StudioFaganel di Gorizia, a cura di Sara Occhipinti e Marco Faganel.
Intervista a Yvonne De Rosa
Il tema della guerra attraversa A mia madre: sebbene ci siano tracce e riferimenti a guerre passate il discorso è più aperto e simbolico…
Credo che eliminare il presente aiuti a entrare nel racconto. A volte il presente è faticoso, pesante e brutale. Per alcune persone è un argomento respingente, invece affrontare questo discorso parlando in generale permette di entrare di più nel tema. È, comunque, la mia chiave. Personalmente faccio fatica a far sì che la memoria breve diventi memoria acquisita, anche quando ci sono cose che vorrei ricordare. Ma ricordo molto precisamente la sensazione. Forse è anche il motivo per cui cerco e vado raccogliendo storie come questa che ritengo universali e che altrimenti finirebbero dimenticate.
In che modo fotografare la chiesa della Scuola Militare Nunziatella di Napoli è l’embrione di questo lavoro?
Il progetto nasce da una commissione, mi era stato chiesto di fotografare la chiesa della Nunziatella. Naturalmente c’era consapevolezza da parte della committenza del mio stile, quindi nel fotografare questa chiesa non si aspettavano un’operazione didascalica. Mi ha colpito da subito la sua magnificenza legata ad opere di autori diversi, tra cui gli affreschi di Francesco De Mura, i dipinti di Ludovico Mazzanti e anche le statue che adornano l’altare di Giuseppe Sanmartino, l’autore del Cristo velato. Questa chiesa è una sorta di concerto di tante anime! Immersa in questa meraviglia che è una sintesi di varie soluzioni stilistiche, mi è venuta l’idea di fotografarla come se fosse la raccolta di un archivio.
In che modo?
Ho appuntato tutto quello che mi veniva in mente. Ho anche ascoltato le musiche che si ascoltavano all’epoca in cui la chiesa è stata costruita. Insomma, mi sono immersa nella sua atmosfera. Una volta trascorso un po’ di tempo in questo luogo incredibile mi sono concentrata di più sul soldato e sul racconto attraverso piccole cose, come nel brano Soldier’s Things in cui Tom Waits parla proprio delle “cose di un soldato”. Questo lavoro rappresenta un po’ l’essenza di quello che sento maggiormente e che è presente anche nei miei altri lavori, cioè la raccolta delle cose che rimangono, le poche testimonianze che sono appartenute ad una persona ma che non hanno valore se non c’è qualcuno che le raccoglie. Un po’ come l’archivio che tutti pensano che sia un tesoro. Ma senza l’impegno di qualcuno che lo renda vivo, l’archivio muore.
La storia del soldato quindi raccoglie tante storie…
Il soldato è il fil rouge ma è tutto senza tempo e la guerra non una guerra ma la guerra. Il mio obiettivo è creare un tempo sospeso. Bisogna considerare che la chiesa della Nunziatella è frequentata dai ragazzi che vanno alla scuola militare. Sono piccoli. Del resto anche la guerra è per piccoli, nel senso che è fatta dai piccoli mandati lì dai grandi. I ragazzi sono le vittime principali della guerra, perché spesso ignari e indottrinati vengono mandati in guerra che è sempre la più grande delle violenze. Volevo assolutamente cercare di fare una riflessione condivisa sulla guerra.
Come l’hai fatto?
L’ho fatto utilizzando il materiale d’archivio che ho trovato lì, conservato nella chiesa e nella sagrestia. Quella chiesa è stata il mio piccolo scrigno. Sono tante le storie, basta sedersi e immaginarle. Lì andavano i soldati per un ultimo saluto, una preghiera prima di andare in guerra. Ma ci andavano anche le persone che aspettavano il loro ritorno, oppure quegli stessi soldati tornati dalla guerra con un grande peso, perché magari avevano compiuto delle azioni che non avrebbero voluto compiere. C’è un passaggio tra la preparazione e quello che è poi la realtà che fa cambiare completamente tutto.
E hai reso questo passaggio all’interno del libro…
Nel libro ho scelto di fare l’excursus di un unico soldato che parte dal diario in cui questo giovane, che è poco più grande di un ragazzino ingenuo, scrive frasi del tipo “ho fatto pratica d’armi e il capitano era contento perché ci vuole bene come un padre”. Un giovane che è chiaramente ignaro di tutto quello che veramente significhi avere in mano delle armi. Quando, poi, pratica la guerra, il ragazzo cresce e diventa sottotenente e sente l’esigenza di scrivere la lettera alla madre che è pubblicata alla fine del libro. È sempre molto giovane ma dopo quell’esperienza è un altro uomo e scrive “mi hanno tolto la giovinezza”. All’inizio del libro, quindi, c’è il diario e alla fine la lettera, in mezzo c’è questa chiesa che contiene la guerra. La contiene energicamente perché vi passano le persone che sono andate in guerra, prima e dopo. Persone che sono cambiate da quell’esperienza.
Gli oggetti da cui parti, il diario e la lettera, sono reali o di fantasia?
Sono entrambi veri e appartengono a quell’esperienza. Stando lì sul posto, fotografando i marmi della chiesa mi sono resa conto che ovunque c’erano delle scritte. La pelle del marmo è la vera custode di quelle storie. Su quella pelle di marmo i soldati hanno inciso i loro nomi, hanno voluto lasciare un segno. Ho iniziato a entrare in quelle storie per raccontarle nel mio modo. Del diario è fotografata la prima pagina, poi all’interno sono state trascritte le altre pagine. Ma l’elemento fondamentale è stato ritrovare l’archivio con le foto delle tombe del Cimitero degli Invitti del Colle Sant’Elia, Primo Sacrario Militare di Redipuglia prima che venisse monumentalizzato. In quelle piccole foto appaiono le tombe realizzate con materiali di risulta delle trincee che nell’estetica sembrano quasi dei giocattoli. Cose costruite da ragazzi per ragazzi in cui nonostante la tragedia c’è ancora un barlume di fantasia che, secondo me, potevano avere solo dei ragazzi.
Manuela De Leonardis
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