Qualche commento sui Padiglioni Polonia e Serbia alla Biennale d’Arte 2024
L’eco del sogno europeo, di un miraggio che rimane tale anche quando sembra che stia per essere raggiunto. Identità frantumate. Padiglioni nazionali che “salvano” la Biennale di Venezia
Giustamente Angela Vettese ha notato come, non da oggi, siano proprio i tanto vituperati Padiglioni nazionali a salvare la Biennale di Venezia, spesso vittima di mostre centrali un po’ stanche, fragili o fuori fuoco: “quest’anno, data la debolezza della mostra centrale, che si è proposta come luogo di ricerca con pochi momenti spettacolari e un ritmo quasi elementare, tutto ciò che le sta al di fuori ha finito per prendere il sopravvento. Parliamo dei Padiglioni, ovviamente, la cui mancata abolizione tutte le volte che sono parsi obsoleti è una benedizione” (La Biennale di Pedrosa è un atto di coraggio (sì, ma non sufficiente), “Artribune”, 22 aprile 2024).
I Padiglioni nazionali alla Biennale di Venezia
Dunque, al netto di coloro che da anni sostengono l’inattualità di identità nazionali, e il predominio invece – glorioso oppure no – di un’arte contemporanea globale “frutto delle aperture politico-commerciali degli anni novanta” (Alessandro Del Puppo) e destinata apparentemente a durare per sempre, le sorprese continuano anche nel 2024 a venire dai Paesi partecipanti, più che dalla ‘visione’ o dalla ricognizione critica del direttore artistico. Lo è nel caso della Germania, così come di Danimarca, Svizzera, Giappone, Egitto, Croazia, Nigeria, ecc. Vorrei adesso soffermarmi su due esempi – Polonia e Serbia – perché a mio parere rappresentativi di un certo modo di intendere il contemporaneo: per ora, risultano per così dire “vincenti” le operazioni concettuali che sono in grado di mettere al centro la narrazione, e il coinvolgimento emotivo dello spettatore attraverso il racconto non didascalico (del trauma storico, principalmente).
Il Padiglione Polonia alla Biennale di Venezia
Nel primo caso, gli eventi sono abbastanza noti: il progetto originario prevedeva l’invito da parte dell’ex-governo di destra (condito di polemiche della comunità artistica) del pittore Ignacy Czwartos con una mostra tutta concentrata sui traumi totalitari del XX secolo, tra nazismo e comunismo; elezioni, cambio di governo, la coalizione centrista silura il direttore della Galleria d’Arte Nazionale Zacheta e scarta Czwartos, per sostituirlo in corsa con il collettivo Open Group, fondato a Leopoli nel 2012. Che presenta un’installazione video tutta concentrata sul presente invece che sul passato, il presente così come si dispiega oggi ai confini della Polonia: in Ucraina. Repeat After Me II è un lavoro realizzato, di fatto, quasi con niente – tranne la memoria viva e la trasmissione di questa memoria. I testimoni ripresi insegnano infatti agli spettatori i suoni e i rumori dei combattimenti, ‘la colonna sonora della guerra’, riproducendoli con la bocca e invitando a fare altrettanto. L’installazione risulta praticamente inerte fin quando qualcuno nel pubblico non decide di partecipare a questo gioco tragico: allora l’opera prende improvvisamente vita, perché si basa principalmente sulla relazione, sulla fiducia reciproca, e sul dialogo a distanza che si instaura con chi racconta uno shock esistenziale come parte integrante della propria esperienza quotidiana.
Come tutti i lavori che funzionano, si tratta ovviamente di un’opera fondamentalmente ambigua. Mentre infatti ripetiamo i suoni di spari, esplosioni, sirene, aerei in picchiata e tank in movimento, non possiamo dimenticare di essere nel contesto tutto sommato confortevole e piacevole dei Giardini, in una bella giornata di maggio, al buio ma al sicuro all’interno di questo strano e surreale karaoke bar (come lo hanno definito gli stessi artisti e la curatrice). Eppure, è un lavoro in grado di commuovere mentre diverte, e mentre un’ombra si insinua nella procedura apparentemente lieve di questa rappresentazione.
Il Padiglione Serbia alla Biennale di Venezia
Exposition Coloniale, invece, il progetto di Aleksandar Denić (1963) per il Padiglione della Serbia, sceglie di ribaltare il tema della mostra centrale, Stranieri ovunque: nell’installazione, secondo l’artista, i serbi si sentono stranieri nel loro stesso paese. Intanto, il padiglione ancora oggi reca sulla facciata, sopra l’ingresso, la scritta JUGOSLAVIA: monito di un’identità dispersa e frantumata, del disfacimento di un intero modo di vita collettivo e individuale. Allora, l’“installazione totale” (Stevan Vuković) mostra e dimostra il perturbante, lo straniamento del familiare. Una casa temporanea, un alloggiamento precario, un posto cioè che al tempo stesso è casa e non lo è. Il medesimo posto, il medesimo tempo – dislocati. Il chiosco, la doccia, la camera da letto…
Su tutto, la grande scritta EUROPE che si legge al contrario, riecheggiata dal juke-box nel chiosco con decine di canzoni rock, pop, krautrock, post-punk a tema Europa: l’eco di un sogno, di un miraggio che rimane tale anche quando sembra che stia per essere raggiunto (la Serbia ha ottenuto lo status di Paese candidato all’adesione all’UE nel marzo 2012, e nel gennaio 2014 sono iniziati i negoziati di adesione: finora, sono stati aperti 22 capitoli negoziali su 35).
Christian Caliandro
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