Dialoghi di Estetica. Parola a Marzia Migliora
Terzo appuntamento con i “Dialoghi di Estetica”, rubrica che suggella la collaborazione fra Artribune e il LabOnt dell’Università di Torino. Seguendo l’alternanza fra artisti e filosofi, dopo Paola Pivi e Stefano Velotti si passa a Marzia Migliora. Chiamata in causa proprio nell’intervista a Velotti pubblicata due settimane fa.
Oggi si discute molto della funzione comunicativa dell’arte. Secondo te è essenziale per la riuscita di un’opera?
Credo che un’opera debba offrire anche uno spazio di relazione in cui l’artista presenta argomenti e interrogativi al pubblico, nel tentativo di suggerire nuove riflessioni e punti di vista.
Alcune tue opere lo dimostrano molto bene. Penso in particolare a Rada e Sospendete quello che state facendo.
Entrambe sono state realizzate nel giugno 2011 presso Ex3 a Firenze in occasione di un’esposizione curata da Arabella Natalini. L’installazione Rada riproduce la grafica della bandiera X-Ray che, nel Codice Internazionale dei segnali marittimi, significa: ‘Sospendete quello che state facendo’. Un pontile di legno color blu oltremare attraversa lo spazio espositivo in larghezza e in lunghezza, sotto di esso il pavimento è completamente coperto da una distesa di scarti di lavorazione di marmo di Carrara.
Nello stesso spazio si trova anche la seconda installazione: quattro elementi neon disposti sulle pareti che traducono in codice Morse il messaggio ‘Sospendete quello che state facendo’. Perché vi sia la sua trasmissione è necessario prestare attenzione all’alternarsi dei segni luminosi linea–punto–punto–linea. Ogni singolo elemento si accende e si spegne, secondo la scansione temporale del codice Morse.
Quindi, non sono i soli segnali a determinare la trasmissione del messaggio?
L’interlocutore si trova nello spazio, al centro di una comunicazione non verbale ripetuta a intervalli regolari che scandiscono ritmicamente il messaggio. Lo spazio che ospita le opere invita lo spettatore a “immergersi in un paesaggio” e a concedersi un tempo per visualizzare il segnale compiendo il percorso. Un “tempo di tregua”, inteso come proposta di riflessione. Un tempo che non si risolve nell’ozio, ma in una “pausa attiva, nel tentativo di risolvere, appianare, riconsiderare”.
Forse insieme al messaggio è rilevante anche la suggestione?
Suggestione nella mia ricerca è seduzione per la realtà. Capacità di comprendere il luogo in cui sto lavorando attraverso una modalità immersiva. Conoscere la storia passata e presente di uno spazio, tentare di scambiare i panni con chi lo abita, intrufolarsi negli anfratti della struttura architettonica, coglierne i mutamenti di luci e ombre, conoscerne l’acustica e la “temperatura emotiva”. Li considero tutti elementi necessari al fine di ottenere una visione del presente utile a ridiscuterlo e magari a provocarlo, nel tentativo di presentare un pensiero diverso riguardo al futuro.
La tua recente opera Viaggio intorno alla mia camera (2012), realizzata in collaborazione con il Dipartimento Educazione del Castello di Rivoli, rievoca questa seduzione per la realtà e apre alla partecipazione…
Viaggio intorno alla mia camera nasce dalla reazione all’attuale momento di grandi difficoltà dovute alla crisi e alle sue ricadute sul sistema culturale italiano. All’origine vi è la convinzione che sia necessario riconsiderare le risorse esistenti, senza arrestare il processo creativo. Il progetto mira a un dialogo con gli spazi e con la storia stessa del primo museo italiano d’arte contemporanea, e coinvolge – attraverso una chiamata alla partecipazione attiva – direttamente i visitatori.
Come hai agito per renderli partecipi?
Ho tenuto numerosi incontri presso il teatro del Castello di Rivoli con studenti giovani e adulti, proponendo loro un confronto e un dialogo al fine di coinvolgerli attivamente nel processo creativo artistico, invitandoli a farne parte. Ai cittadini del territorio è stato proposto di diventare prestatori di un oggetto personale: una poltrona da un posto del proprio salotto. Il prestatore, una figura peculiare del “fare mostre”, ha scelto di cedere temporaneamente e in modo anonimo un oggetto personale e d’uso domestico mettendolo a disposizione del pubblico del museo.
Le poltrone entrano nel museo, poi cosa accade?
Il pubblico può – durante il percorso di visita – utilizzarle per una sosta o per la contemplazione delle altre opere esposte, attivando un processo di scambio tra dimensione pubblica e privata. Attraverso un gesto di condivisione si crea la condizione perché il visitatore possa sentirsi a proprio agio. Accolto come se fosse su una “poltrona in prima fila” a lui riservata, che lo fa sentire al centro dell’opera. D’altra parte questa non può essere tale se non è fruita ed esperita. In questo modo il pubblico diventa attore degli spazi e dei progetti culturali del Castello. Il pubblico è collaboratore e questo permette anche di riconoscere la funzione culturale, educativa e divulgativa del Museo quale “casa di tutti”, in primis dei cittadini che lo visitano quotidianamente.
Possiamo considerare questi aspetti del tuo lavoro come un ritorno ad alcuni assunti caratteristici dell’arte concettuale?
Mi sembra inevitabile che il mio lavoro sia influenzato dalle ricerche di grandi artisti concettuali o poveristi. È la tradizione da cui vengo, in cui sono immersa e che costituisce in qualche modo il mio “Dna artistico”. Il periodo del concettuale è ancora una fucina di idee e di ricerche dalla quale rimango sempre e piacevolmente sorpresa. Beuys, Nauman, Kosuth sono per me punti di riferimento imprescindibili. E credo che lo siano anche per molti altri. La loro ricerca è così viva e presente, da continuare a entrare trasversalmente nelle opere dei giovani artisti.
Penso che l’eredità delle pratiche e dell’attivismo sociale promosse da taluni artisti concettuali sia ancora più evidente nella tua recentissima opera Capienza massima meno uno (2012). Com’è nata questa performance situata al Maxxi di Roma?
Il progetto, curato da Anne Palopoli, prende avvio dalla mia riflessione sulla parola ‘occupazione’. Ho analizzato le sue diverse accezioni confrontandomi costantemente con il momento storico che stiamo vivendo. Occupazione si riferisce allo “stare fisicamente in un luogo”: occupare è ingombrare uno spazio con il proprio corpo. Il termine ha però anche una forte valenza sociale e politica: appropriarsi di un luogo legalmente o illegalmente, pacificamente e non. Sono numerosi gli spazi culturali – teatri e cinema, tra gli altri – che sono stati recentemente occupati nel tentativo di un’azione di difesa contro il progressivo sfaldamento del sistema culturale italiano. Occupazione non vuol dire solo protesta, ma anche lavoro. La disoccupazione, lascia infatti un vuoto che spesso si cerca di colmare, proprio con una occupazione fisica di un luogo al fine di fare sentire la propria presenza, la propria resistenza.
È sulla base di queste riflessioni che il concetto di ‘capienza massima’ è diventato a sua volta significativo per questa mia analisi. Esso si ricollega in primo luogo allo stare fisicamente in un posto. La capienza corrisponde alla possibilità di contenere, equivale al limite massimo di sopportazione espresso con un numero di persone o un peso al metro quadro. Questa capienza massima è resistenza strutturale, così come manifestare occupando è resistenza fisica finalizzata a mettere in crisi un determinato sistema. Capienza massima è un’azione corale che coinvolge performers volontari, in numero tale da “saturare” i 250 mq della hall del museo Maxxi.
Come hanno contribuito i performer?
A ognuno degli iscritti ho chiesto di indossare una maglietta che esplicitasse il proprio significato per la parola ‘occupazione’. Le persone si sono immesse nell’azione senza avere nessuna istruzione o indicazione su quello che sarebbe avvenuto al momento del primo incontro, che corrispondeva con l’attuazione della performance: martedì 19 giugno alle ore 18. I performer, all’unisono, si sono seduti a terra. Si sono rialzati. Hanno rispettato i silenzi e con il proprio corpo hanno agito ritmicamente seguendo le mie indicazioni e quelle degli occupanti del teatro Valle. Così siamo passati dai canti popolari di resistenza e di lavoro per lenire la fatica – diretti da Patrizia Rotonda della Scuola Popolare di Musica di Testaccio – all’accompagnamento delle parole della drammaturga Elena Pugliese, a proposito dell’occuparsi di sé nel quotidiano e dell’urgenza di colmare il vuoto della disoccupazione, che troppo spesso culmina nella frustrazione.
Davide Dal Sasso
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