Ecco com’è andata l’edizione 2024 della Biennale Teatro di Venezia
Gli spettacoli più interessanti della Biennale Teatro 2024. Artisti italiani e internazionali di generazioni e ispirazioni differenti ma accomunati dall’indagine sulle modalità di coesistenza di realtà e finzione
Si è svolto dal 15 al 30 giugno a Venezia il cartellone della cinquantaduesima edizione della Biennale Teatro, diretta per l’ultimo anno da Stefano Ricci e Gianni Forte. Niger et Albus il tema di quest’anno, perché “è il superamento di questo dissidio che porta l’individuo a procedere verso un progresso generale”. Un’edizione attraversata anch’essa dal diffuso “reality trend”.
“Cenere” di Stefano Fortin e Giorgina Pi
Mescola finzione, biografia e storia Cenere (quante mostre in questo recente biennio dedicate alla “polvere” pasoliniana) lavoro firmato da Giorgina Pi sul testo di Stefano Fortin, vincitore lo scorso anno del bando per autori di Biennale College Teatro. Cenere è l’impossibilità di lasciare un segno su quel mandolino rovesciato nella natura morta seicentesca di Baschenis. Nessuna traccia, perché tutto è nel cortocircuito di un presente da cui entrano ed escono, si confondono e si perdono i ruoli definiti dalla riforma pirandelliana e dallo strutturalismo di Calvino: autore, personaggio, attore si scambiano le solitudini; un prologo e tre quadri distinti che si saldano nella voce dell’autore stesso. Martellante come un dramma di Sarah Kane, sospeso come l’Intrusa di Maurice Maeterlinck, l’autore riempie e svuota le parole dei suoi personaggi (interpretati da Valentino Mannias, Sylvia De Fanti, Giampiero Judica, Francesco La Mantia, Alessandro Riceci, Giulia Weber, Valerio Vigilar, Cristiano De Fabritiis), entra ed esce dal cono di luce che dà e toglie realtà, commenta e agisce. Le domande s’intrecciano ai fatti: i funerali di Pasolini, il G8 di Genova, l’eruzione del vulcano islandese, le procedure della polizia. Come nell’installazione di Teresa Margolles e la sua acqua nebulizzata dagli obitori, qui ci avvolge virtualmente la cenere da cui ha avuto inizio la narrazione, quella rimasta dalle rovine di Troia e quella che rimarrà dopo la catastrofe a cui il protagonista “non vuole assistere”.
“Tre sorelle” di Muta Imago
Conosciamo i Muta Imago dai tempi di Comeacqua: Claudia Sorace e Riccardo Fazi riportano alla Biennale la loro splendida attenzione ai segni della composizione con un interesse ancor più profondo al suono. Un classico (dopo guarda caso un lavoro intitolato Ashes), le Tre Sorelle di Cechov, che Muta Imago riduce all’essenziale per farne una riflessione sullo spazio e sulla parola. In scena solo le tre sorelle – Monica Piseddu, Arianna Pozzoli, Federica Dordei – donne woolfiane in un vuoto tra ricordo e speranza. Ogni cosa è già successa, o forse deve ancora accadere. Tutto le attraversa in questo spazio esteso tra un prima e un dopo, quella che in arte si chiama agonia, tra il già e il “non ancora”. Sono lì nel possibile, sulla soglia del tempo, nel realismo onirico. La musica di Lorenzo Tomi eseguita dal vivo, accompagna i frammenti di luce che esplodono dai sogni sfuggiti di mano, dall’incendio della casa, dalla festa che non si consuma. Scopo e vita svelano il mistero di un’interzona senza pace: sta a noi sulle sedie delle Tese ai Soppalchi capire il mistero sciamanico che si sprigiona da quel tatami di dolore.
“Medea’s Children” di Milo Rau
Insopportabile capolavoro Medea’s Children di Milo Rau. Tanti i temi sul palco delle Tese: dai bambini in teatro al ruolo della visione nel tragico, alla struttura ontologica stessa della tragedia. Vedere e raccontare si scambiano le parti. Il prologo è un dopo-spettacolo non ancor avvenuto: la crudeltà dei fatti è uno sciame sismico che parte da un “prima” e arriva sulla soglia del palco dove i cinque ragazzi protagonisti insieme all’attore Peter Seynaeve mescolano la struttura del tragico con l’epica delle loro vite. Di morte si può parlare come in un talk, diverso è vedere il sangue che di lì a poco scorrerà dalle gole squarciate dei cinque ragazzi. Che Euripide rimbalzi nella cronaca è già cosa del Teatro dei Borgia – solo per dirne uno – che il dolore sgomenti e alieni proprio perché nel corpo di un bambino è già cosa di Maurizio Cattelan e dei suoi bambini impiccati in Piazza XXIV Maggio a Milano. Questa Medea è piuttosto un discorso tutto interno alla tragedia che si gioca la sua credibilità tra l’artificio del video e la finzione che ogni narrazione porta con sé. La cronaca dell’assassina belga che un 28 febbraio uccise cinque figli sta dentro la stessa unità aristotelica, scatola in cui tutto è già stato deciso. Anche se si sdoppia la scena e la visione, si pensi solo a quanto questo dispositivo ha prodotto da Warhol a Studio Azzurro passando da Dogville di Lars von Trier, non c’è bianco e nero che tenga. Sullo sfondo un film che rasenta il dichiarato (e brutto) fantasy e accetta il bianco e nero della presunta diretta prodotta da una steadycam. Ma anche quella è finzione che come un sandwich stritola l’innocenza dei ragazzini, i loro canti, le loro preghiere, i loro dubbi infantili. Dall’epica non si sfugge, anche sperimentando la migrazione delle sue forme.
“Food Court” di Back to Back Theatre
Con tutt’altro intento vengono usate seggiole e video in Food Court degli australiani Back to Back (Leone d’Oro 2024) accompagnati al Piccolo Arsenale dal gruppo The Necks. Il video con quel bosco che inghiotte il teatro della crudeltà consumato sul palco riporta in scena quelle convezioni da cui il gruppo cerca di liberarsi con una performance che lascia lo spettatore nudo nei suoi voyeurismi sulla diversità. Food Court non ha lo struggimento di Pippo del Bono ma la stessa ruvidità nel lasciare che la disabilità esprima un potenziale espressivo di corpo e linguaggio. Il lavoro ricorda un abuso e ricorda a noi che nemmeno i “diversi” si alleano per far fronte alla devastante solitudine del suicida di Cenere, delle tre sorelle di Cechov, di Medea e di una diversamente abile che balla nuda nella zona grigia del nostro moralismo.
Simone Azzoni
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