Intervista a Vincent Peters, il fotografo delle celebrità
Con i suoi ritratti dei vip, l’artista crea frammenti di una storia in bianco e nero, che se sommati danno vita a un vero e proprio film. In questa intervista ci svela tutti i segreti dietro agli scatti
A Palazzo Bonaparte di Roma, Vincent Peters (Brema, 1969) presenta una selezione di lavori in bianco e nero realizzati tra il 2001 e il 2021. Durante l’intervista, Peters condivide un percorso che rivela la sua visione personale, profondamente ispirata alla tradizione italiana. Nelle sue opere, la luce gioca un ruolo centrale poiché delinea storie ed emozioni attraverso i ritratti di celebrità come Charlize Theron, Monica Bellucci, Scarlett Johansson, Vincent Cassel e John Malkovich. Visioni iconiche e senza tempo concepite per essere eterne. Ci racconta tutto in questa intervista esclusiva.
L’intervista a Vincent Peters. La tecnica fotografica
Quanto è importante la tecnica per realizzare una fotografia?
Non ha nessuna importanza. Potrei rispondere citando Orson Welles, che riguardo al film diceva che si può imparare la tecnica in mezza giornata, ma si ha bisogno di una vita intera per utilizzarla. È soltanto un mezzo per realizzare un fine. Della tecnica possono occuparsene altri, ma il compito del fotografo è sapere cosa vuole. È esattamente quello che accade con un regista: un regista non deve saper fare l’attore, ma deve conoscere perfettamente la storia.
Le tue fotografie nascono in stretto rapporto con la storia che raccontano. Puoi parlarci di questo legame tra il film e la fotografia?
Ho scelto di utilizzare gli elementi del film perché sono interessato principalmente all’aspetto emozionale, piuttosto che all’apparenza. Dal film imparo che la relazione con il pubblico è molto diversa: deve esserci qualcosa di interessante nella storia per catturare l’attenzione dello spettatore. Questo è ciò che cerco di fare con la fotografia, poiché mi rendo conto che molte persone si concentrano principalmente sulla tecnica e sull’apparenza.
Sei stato direttore della fotografia in alcuni short film. Hai mai pensato di occuparti anche della regia?
Ci ho pensato, ma la frustrazione di non essere un regista mi spinge a fare foto migliori. Fare un film è un progetto interessante e molto impegnativo, e richiede di avere una storia da raccontare.
Come vedi l’evoluzione del tuo lavoro in un mondo sempre più orientato verso la creazione di immagini con l’Intelligenza Artificiale?
Per me, ciò che rende interessante una fotografia è il fatto che rivela la storia di chi l’ha scattata. Quando si fotografa, si fanno delle scelte: dove è il punto focale? Qual è il fulcro emotivo della fotografia? Escludere la persona e ridurre tutto solo all’aspetto superficiale significa privare la fotografia di significato. Una buona foto deve riflettere la condizione umana. Il Neorealismo italiano ci ha insegnato questo: con film come Ladri di biciclette, Vittorio De Sica mostra la vera condizione dell’uomo e lo spettatore percepisce qualcosa di autentico. Non credo che un computer possa ricreare quella condizione perché manca di emozioni.
L’intervista a Vincent Peters. Il fotografo dietro l’obiettivo
Quanto influisce l’esperienza personale nel processo di creazione e di fruizione di una fotografia?
Una fotografia non è un risultato, è un processo. Quando si guarda una foto la nostra esperienza influenza il modo in cui la osserviamo, così come le cose che ricordiamo, ciò che percepiamo. Se si lascia da parte il processo, rimane soltanto il prodotto e tutto scompare. La stessa cosa vale anche per il fotografo, la cui esperienza trova la sua strada nella fotografia.
C’è un pittore italiano che ti ha ispirato in modo particolare?
Lavorando con la luce, mi viene in mente Caravaggio, anche se potrei citarne molti altri. In particolare, negli ultimi duemila anni ci sono due periodi in cui la luce ha giocato un ruolo fondamentale come parte emotiva dell’immagine: il Rinascimento e gli Anni ’30-’50 ad Hollywood. Questi periodi hanno influenzato profondamente il mio lavoro.
Ho letto che quando eri piccolo, tuo padre ti raccontava le trame dei film. Perché lo faceva secondo te?
È complicato perché non era semplicemente il racconto di una storia. A volte non percepiamo l’amore nello stesso modo in cui lo vorremmo. Penso che, in particolar modo in Italia, molte donne hanno problemi con il padre proprio per questo motivo. Nel mio caso posso dire che oggi ho imparato qualcosa che per tanto tempo non ho compreso appieno: l’amore di mio padre stava nel condividere il suo amore per i film. Erano film che io non avevo mai visto, li immaginavo. Oggi, però, quel suo amore mi ha portato a realizzare una mostra qui a Roma e ora capisco quello che lui cercava di darmi.
Come interpreti il rapporto tra tempo e bellezza nelle tue fotografie?
Le persone che fotografo sono come fiori primaverili: cambiano continuamente e non rimangono mai le stesse. Ad esempio, ho fotografato Monica Bellucci prima e dopo la nascita della sua seconda figlia. Ho fotografato anche Adriana Lima, che ora ha un terzo figlio ed è cambiata, ma io l’ho catturata in quel preciso momento. Nell’arte esiste il concetto di memento mori: ogni foto porta con sé un ricordo del fatto che il tempo passa e non torna più. La bellezza risiede in quel preciso momento. Attraverso questa consapevolezza, si capisce che il tempo passa e non ritorna più. La bellezza esisterà ancora, ma sarà diversa. Tutto cambia.
Perché visitare la tua mostra a Palazzo Bonaparte?
Penso che la fotografia abbia il potere di trasportarti in luoghi altrimenti inaccessibili. Esiste un proverbio che riflette questa idea: “Nel giardino chiamato ‘me stesso’, continuo a scoprire persone di cui non avrei mai immaginato l’esistenza“. Le foto esposte nella mostra offrono l’opportunità di conoscere individui che sono essenzialmente una variante di te stesso, di cui non sapevi nulla.
Donatella Giordano
traduttrice: Barbara Caracciolo
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