Espandere il mondo invisibile. Intervista all’artista giapponese Mariko Mori
Abbiamo incontrato la celebre artista giapponese Mariko Mori, pioniera dell’incontro tra arte contemporanea e neuroscienze e protagonista di una nuova installazione a Venezia
Desiderio, amore, energia, materia oscura: tutto quel che muove il mondo è una forza invisibile. Ce lo spiega, con una semplicità essenziale che è tipica di chi conosce la pace interiore, l’artista giapponese Mariko Mori, in una placida giornata estiva nel verde del giardino di Palazzo Corner della Ca’ Granda a Venezia. Nata a Tokyo nel 1967, ha vissuto tra Londra e New York, per poi stabilirsi soltanto recentemente nella remota isola di Miyako, in un’abitazione del design essenziale (intitolata Yuputira), progettata da lei stessa e realizzata con Ring Architects. Da sempre affascinata da ciò che ci è sconosciuto e da quel che sfugge alla percezione visiva umana, Mariko è tra le prime pioniere ad applicare le neuroscienze e all’arte contemporanea.
L’installazione di Mariko Mori a Venezia
L’abbiamo incontrata a Venezia, in occasione dell’inaugurazione della sua ultima installazione Peace Crystal, una struttura ovale – allestita nel giardino di Palazzo Corner della Ca’ Granda fino al 7 ottobre 2024 – che al suo interno custodisce un cristallo di vetro alto un metro e sessanta centimetri (l’altezza media dell’uomo moderno), che simboleggia il punto evolutivo in cui gli esseri umani si sono alzati in piedi, ma anche il momento cruciale in cui si è sviluppata l’intelligenza e la spiritualità. Da sempre interessata ai temi del femminismo, della tecnologia, della natura e dalla trascendenza (in particolar modo alla filosofia buddhista), Mariko Mori – vestita completamente di bianco, come sempre – ci ha raccontato della sua opera più recente, ma anche della responsabilità dell’uomo nei confronti della natura (con cui siamo un tutt’uno), e del potere dell’ignoto e di ciò che resta invisibile allo sguardo (e che invece muove il mondo). Tutto a partire dell’ingegnoso connettore solare che si trova alla base dell’installazione veneziana, che non riutilizza l’energia del sole per illuminare l’opera, ma che attira la stessa luce solare e la fa confluire all’interno della struttura.
Intervista a Mariko Mori
Sin dagli Anni Novanta, hai spesso lavorato all’intersezione tra arte contemporanea, tecnoscienze e teorie della mente. Dove si posiziona l’installazione Peace Crystal in relazione a questa ricerca?
Questa volta ho utilizzato il dispositivo solare Himawari, che mio padre inventò e brevettò 50 anni fa, e che segue il sole, trasmettendo la luce del sole attraverso un cavo ottico. Questo fascio di luce solare viene rediretto dentro l’Hōjū, che è una forma architettonica simbolica. La luce entra nel Peace Crystal per illuminare, per abbracciare il vetro di cristallo. Quindi, in termini di tecnologia, la sfida principale che abbiamo affrontato è stata quella di fondere un cristallo in vetro da 1,5 tonnellate, che è davvero pesante, e nessuno l’aveva mai fatto. Questa è stata davvero una sfida tecnica.
E c’è una ragione specifica per la forma della struttura esterna?
Sì, l’Hōjū (o hōju-no-tama) è un gioiello in grado di “avverare i desideri” che spesso si trova nelle mani delle statue delle divinità buddiste. Così ho voluto avere un “contenitore” che potesse avverare il nostro desiderio di pace collettivo.
Natura, neuroscienze e alterità nell’arte di Mariko Mori
Il cristallo sarà installato in Etiopia, che è considerato uno dei primi siti in cui è apparso l’Homo Sapiens. Dal momento che questo lavoro può essere letto anche come una dichiarazione ecologica, qual è la tua visione sulla responsabilità degli esseri umani verso la natura?
Penso che i nostri antenati fossero davvero in grado di rispettare e onorare la natura, e in alcuni luoghi, anche nel mondo contemporaneo, alcune civiltà hanno mantenuto questo rapporto. Penso che ci sia bisogno di ricordare quel rapporto così radicato con la natura. Per qualche motivo abbiamo deciso di attuare una separazione concettuale tra uomo e natura. Ed è per questo che ora abbiamo perso il nostro equilibrio. Ma non siamo separati. Siamo uguali, noi siamo la natura. E penso che sia stato particolarmente evidente quando c’è stato il COVID, vero? È successo perché siamo natura. Quindi penso che se vogliamo che le generazioni future vivano con la natura incontaminata, dobbiamo preservarla. Se vogliamo vivere pacificamente e felicemente, dobbiamo davvero trovare un equilibrio.
Hai sempre coltivato un forte interesse per le neuroscienze, affermandoti rapidamente come una pioniera del neuroscientific turn nelle scienze umane (come testimoniato dall’iconica installazione Wave UFO, 2003). Vedi il Buddhismo come un nesso tra neuroscienze, arte e spiritualità?
Nella storia della nostra civiltà, abbiamo sempre usato e useremo sempre la tecnologia più recente per creare qualcosa di nuovo. L’abbiamo usata per creare qualcosa da offrire a Dio, per creare le chiese, o qualsiasi altra cosa che permetta all’uomo di spingersi oltre i propri limiti producendo tecnologia all’avanguardia. E l’uomo l’ha sempre fatto, se si pensa a Leonardo da Vinci, per esempio. Ma anche ora, abbiamo sempre qualche architetto che spinge i propri limiti con la tecnologia. In termini di rapporto con la spiritualità, la connessione sta nella capacità di visualizzazione e nell’immaginazione umana: è intrinseco nella stessa essenza umana concepire nuove tecnologie. È inevitabile. Continuiamo a farlo in modo innato semplicemente perché la nostra immaginazione è la fonte da cui creiamo il futuro. A volte la tecnologia non è ancora sviluppata, ma la immaginiamo, poi la visualizziamo nella nostra mente, e poi la creiamo.
Molti critici hanno spesso definito la tua arte come “aliena”, o “appartenente a un altro pianeta”. Pensi che queste definizioni si addicano al tuo lavoro? E in che modo l’alterità e l’ignoto interagiscono con la tua ricerca?
Il 96% dell’universo ci è ancora sconosciuto, non lo vediamo. È tutto invisibile, dalla materia oscura all’energia. E quindi anche dell’universo, ne sappiamo solo un po’. E ciò che vediamo attraverso gli occhi, il mondo visivo, ha di conseguenza davvero poca importanza. La maggior parte delle cose che pensiamo essere la “verità” non possono essere la verità perché semplicemente non le conosciamo davvero. E infatti, molte cose della “realtà” si basano sul mondo invisibile. Per esempio, le persone si innamorano. Lo puoi vedere? No. Non vedi l’amore, giusto? È la cosa più importante della vita, eppure non lo vedi. Quindi, attraverso i pensieri della filosofia più recente – e in parte con le ricerche e le idee sul mondo parallelo o sul multi-universo o sull’universo infinito e così via – stiamo cercando di riflettere sull’invisibile e di scoprirlo. Ma il caso vuole che le idee di, diciamo, “universo infinito” o di “mondo parallelo” siano abbastanza simili all’idea di reincarnazione, il concetto buddista di una connettività con il tutto. E neanche necessariamente buddista, perché ancor prima c’era già un’idea neolitica di “inversione” e di circolarità della natura. E questo pensiero si diffonde ed è possibile ritrovarlo in più civiltà, dagli antichi celti fino all’Antico Egitto, passando per i Maya. Avevamo tutti un’idea simile a riguardo. Quindi quello che sto dicendo non è del tutto nuovo, ma il mio punto è che quello che vediamo è davvero molto poco. E penso che l’arte sia il mezzo che più di tutti può espandere ed esplorare il mondo invisibile. E per renderlo finalmente visibile.
Laura Cocciolillo
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