Accampamenti pro-Palestina, giustizia, uguaglianza: parola agli architetti Sandi Hilal e Alessandro Petti
Dopo gli architetti Paulo Tavares e Esra Akcan, a prendere la parola sulle manifestazioni a sostegno della causa palestinese promosse negli atenei internazionali sono gli architetti Sandi Hilal e Alessandro Petti, vincitori del Leone d’Oro all'ultima Biennale di Venezia
La riflessione sugli accampamenti pro-Palestina, che ha fin qui raccolto le opinioni dell’architetto ed educatore Paulo Tavares e dell’architetta turca-americana Esra Akcan, prosegue con gli architetti Sandi Hilal e Alessandro Petti: vincitori del Leone d’Oro all’ultima Biennale di Venezia, sono i fondatori di DAAR – Decolonizing Architecture Art Residency, una pratica di ricerca basata in Palestina che si colloca tra arte, architettura, pedagogia e politica. Il loro lavoro si è sviluppato attraverso una serie di pubblicazioni come Architecture after Revolution, con Eyal Weizman (Sternberg Berlino 2013), il libro-dossier Refugee Heritage (Art and Theory, Stoccolma 2021) e poi Permanent Temporariness (Art and Theory, Stoccolma 2019), e interventi architettonici quasi sempre pensati per costituire luoghi di dialogo e forme innovative di pedagogia. Così per esempio, Campus in Camps, un’università in un campo profughi del 2012, e Concrete Tent, una tenda di cemento costruita nel 2015 nel campo profughi di Dheisheh, a Betlemme, come spazio di ritrovo per la risoluzione dei conflitti.
A dialogo con gli architetti Sandi Hilal e Alessandro Petti sugli accampamenti pro-Gaza
Per cominciare: come inquadrereste la fase che stiamo vivendo?
Alessandro Petti – AP. Il contesto in cui avviene questa discussione è un momento storico preciso, segnato da profonde rotture. Il colonialismo cerca di eliminare il contesto, facendo finta che gli eventi esistano in un vuoto storico. Per questo, il nostro compito è collocare gli eventi in una delle tante possibili sequenze che costruiscono narrazioni capaci di aiutarci a interpretare il presente. In questo momento, siamo testimoni di un genocidio documentato giornalmente e, allo stesso tempo, di una connessione globale senza precedenti tra diverse lotte per la giustizia e l’uguaglianza. È anche un periodo di forte polarizzazione: da una parte, coloro che vogliono mantenere lo status quo normalizzano la guerra; dall’altra, coloro che vedono in questa crisi sistemica una possibilità di trasformazione radicale, mettendo a rischio la propria incolumità o la propria carriera. Questa situazione crea una sensazione contraddittoria di disperazione e ottimismo. Vorrei partire da questo contesto specifico per cercare di trovare, in questo momento così buio, delle note positive.
A Venezia, “in risposta all’indignazione collettiva del corpo studentesco rispetto al posizionamento e alle modalità adottate dal Rettore e dalla governance IUAV in merito alla questione palestinese”, a metà maggio si è costituita un’Assemblea Permanente presso il chiostro e il Rettorato dei Tolentini. L’assemblea vi ha invitato a tenere una lezione, ottenendo il supporto dell’Università, che poi è stato però stato ritirato. È stato negato l’uso dell’aula magna per “ragioni di sicurezza”, ma gli studenti hanno cercato e trovato un posto alternativo (l’Auditorium del Cotonificio). Com’è andato l’incontro?
AP. Quello che è successo a Venezia è molto simile a ciò che è avvenuto in molte altre città: studenti che chiedono alle istituzioni di reagire e prendere una posizione rispetto a un genocidio in atto. La parte forse più significativa della conferenza è stata la discussione finale, nella quale gli studenti hanno rivendicato il loro diritto allo studio, culminando in una marcia verso i Tolentini, sede principale dello IUAV, per riappropriarsi degli spazi.
Questa azione è nata da una frustrazione profonda: per mesi, studenti molto informati e preparati sono rimasti sconvolti dalla mancanza di reazione dell’amministrazione al genocidio in Palestina. Da questo momento di rottura, anche generazionale, le università sono diventate un laboratorio importantissimo per il pensiero e le azioni critiche. In questo momento così difficile, mi rende molto felice vedere come gli studenti rivendicano una loro coerenza politica e intellettuale.
I movimenti Black Lives Matter, Palestinian Lives Matter e la lotta per l’ambiente
Proprio questo è stato il mio punto di partenza per questo ciclo di conversazioni: nelle proteste degli studenti e negli accampamenti vedo una ragione di speranza, l’espressione di solidarietà internazionale straordinaria.
Sandi Hilal – SH. Questa dimensione di protesta da parte degli studenti viene soprattutto dal vivere il genocidio in diretta: ciò emerge ascoltando le testimonianze degli studenti. Molti raccontano dell’impressione di vedere tutto quello che sta succedendo in diretta sui social. Ma non dobbiamo fare l’errore di pensare che tutto ha avuto inizio con Gaza. Ci sono state prima diverse altre cose, come per esempio il movimento Black Lives Matter che ha contribuito tantissimo a iniziare a costruire un linguaggio, un linguaggio per capire come iniziare a parlare di queste cose. Poi è arrivato il lockdown del Coronavirus, che è stato un altro momento importante. Perché a volte l’esperienza è il vero riferimento e, incredibilmente, per tanta gente essere stati chiusi per due anni dentro casa, con tanta sorveglianza, ha permesso una nuova identificazione con i palestinesi. Un terzo elemento rilevante, specialmente per i giovani, è stata la lotta per l’ambiente degli ultimi anni. Adesso Greta Thunberg è parte fondamentale dell’accampamento all’Università di Stoccolma. Anche lei dorme nelle tende: l’ha fatto da subito, con tutti i giovani del suo movimento così da connettere la giustizia in Palestina e la giustizia per l’ambiente. Lei continua a ripetere “there is no environmental justice on stolen land”, collegando le battaglie per l’ambiente con le battaglie di liberazione di popoli indigeni contro il colonialismo. È su queste connessioni che dobbiamo continuare a lavorare.
Voi avete delle figlie poco più giovani di Greta, giusto?
SH. Le nostre figlie hanno 18 e 15 anni. Il movimento Black Lives Matter ha veramente aperto una nuova porta per loro come palestinesi. Hanno iniziato a capire che c’è una connessione tra Black Lives Matter e Palestinian Lives Matter e la lotta per l’ambiente. È fondamentale connettere queste lotte. Questo è ciò che vedo di positivo: prima queste lotte erano un po’ in contrasto tra loro. Per la prima volta forse il genocidio di Gaza, per la sua gravità, ha permesso di connettere queste lotte. Abbiamo capito che siamo di fronte a un potere enorme, e che se non ci uniamo tutti non ce la faremo. Gli accampamenti nelle università sono una conseguenza di diverse lotte che si sono unite. Lasciare la Palestina come un caso separato è sbagliato, perché non lo è. Ma in questo momento quello che sta succedendo in Palestina è la cosa più grave e ci unisce, perché non ce la facciamo più a vivere così.
E le prospettive di pace?
Sono d’accordo, e continuerai a scavare su questo. Il ruolo del pensiero anticoloniale e postcoloniale è stato proprio quello di mostrare come, da ben prima dell’olocausto, la storia della modernità è una storia di violenze, in gran parte perpetrate dall’Occidente. Ma c’è chi questa cosa continua a non vederla.
AP. La questione è capire dove si trova il fronte della battaglia e dove impiegare le nostre energie. Personalmente, ho abbandonato l’idea che dobbiamo “convincere qualcuno”. In questo modo rischiamo di rimanere bloccati in uno schema di opposizioni, mentre credo sia più importante cambiare il discorso e non accettare le loro regole del gioco. Bisogna creare nuove narrazioni invece di farsi incastrare nelle loro. Per questo, ciò che avviene negli accampamenti è un lavoro fondamentale: è lì che costruiamo un nuovo linguaggio e un diverso modo di stare al mondo. È straordinario, per esempio, vedere come, in particolare negli Stati Uniti, nei campus, giovani ebrei rivendicano una loro identità ebraica storica antisionista, antirazzista e anticolonialista.
E cosa rispondi a quelli che dicono “parliamo di pace”?
AP. Dobbiamo parlare di liberazione del popolo palestinese. Per troppo tempo l’Europa si è attribuita un finto ruolo di mediatore tra israeliani e palestinesi. È ora di ascoltare le voci e le parole dei giovani che partecipano alle assemblee. Ascoltandoli, si capisce che si sono liberati dalle gabbie che ci hanno tenuti imprigionati.
SH. Secondo me, soprattutto per i giovani, i riferimenti arrivano spesso e volentieri anche dalla vita di ogni giorno, dall’esperienza, dal come ci si sente, da cosa si prova. E questo non significa che la letteratura non è importante, che leggere non è importante, perché è assolutamente fondamentale, però non è l’unica cosa, non è quello che decide se tu sei una persona sapienza. Per me, ad esempio, mia madre e mia nonna sono state due figure fondamentali nel mio sapere. Il sapere di mia madre, mia nonna, dei miei genitori, del mio quartiere, che tutti insieme, quando gli israeliani hanno chiuso le scuole durante la prima intifada, hanno messo in piedi una scuola e un’università dentro i salotti delle nostre case. Quello è il sapere a cui io penso di essere molto, molto ancorata. E credo sia fondamentale capire che il sapere non viene solo esclusivamente dai riferimenti intellettuali dei libri o dei cosiddetti esperti. Quando abbiamo creato Campus in Campus, volevamo portare il campus universitario dentro il campo profughi, adesso vediamo quasi il campo profughi dentro il campus, ed è una cosa incredibile perché ci sono tanti professori che hanno voglia di sedersi per terra, e iniziare a capire la lotta… Per noi è importante questa dimensione olistica, che unisce corpo e mente, esperienze di vita e dimensione intellettuale, la teoria e la pratica, un modo di intendere il mondo e la lotta per la liberazione.
Marialuisa Palumbo
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