Sessant’anni di “Empire” di Andy Warhol. Anatomia di un capolavoro  

Nella notte tra il 25 e il 26 luglio 1964, Andy Warhol realizzava una delle sue opere più famose, un film muto di otto ore in cui l’unico soggetto è l’Empire State Building di New York. A sessant’anni di distanza, ecco perché “Empire” è una pietra miliare della storia dell’arte

Mentre Robert Rauschenberg vinceva un controversissimo Leone d’Oro alla Biennale di Venezia, segnando così il trionfo globale della Pop Art, Andy Warhol (Pittsburgh, 1928 – New York, 1987) trascorreva l’estate del 1964 nella sua amata New York, in procinto di creare qualcosa di altrettanto memorabile. Nella sua cavalcata alla conquista della realtà, Warhol non poteva limitarsi a riprodurla: già dal 1963 aveva cominciato a esplorare il linguaggio videografico, in un crescente tentativo di superare il limite tra finzionale e reale. Dopotutto erano gli anni del direct cinema e del cinéma verité, delle loro tensioni asintotiche alla realtà; ed erano (Warhol lo sa bene) gli anni della Pop Art, che spingeva fortemente per l’ingresso di tutta la realtà, senza snobismo, nelle maglie dell’arte. È questo il milieu che permette ad Andy Warhol, nella notte tra il 25 e il 26 luglio 1964, di salire sul Time&Life Building insieme all’amico regista Jonas Mekas per realizzare Empire, una ripresa di circa otto ore dell’Empire State Building, cominciata un’ora prima del calar del sole e terminata a notte fonda. 

“Sleep”, il primo film di Andy Warhol 

Per comprendere perché Empire è il film più importante della produzione di Andy Warhol, è necessario fare un passo indietro e analizzare i suoi primi esperimenti con la cinepresa. Nell’estate del 1963, l’artista di Pittsburgh trascorreva i fine settimana a Old Lyme. Durante uno di questi, girò il suo primo film, con la sua Bolex 16 millimetri, comprata lo stesso anno: Sleep. Sei ore di film il cui unico soggetto era il sonno del suo amante d’allora, il poeta e artista John Giorno. Nonostante l’azione sia singola e indisturbata, il prodotto finale è un montaggio di segmenti brevi, caratterizzati da inquadrature diverse, con l’aspirazione documentaria di catturare tutte le sfaccettature dell’inconsapevole dormiente. Già da questo primo film è chiaro l’intento di Warhol: per catturare la realtà, l’autore deve scomparire. Le sue scelte devono ridursi al minimo, essendo il loro peso inversamente proporzionale all’autenticità di ciò che viene ripreso. Come racconta lo stesso artista, quando Giorno finalmente si sveglia, nello scoprire Warhol intento a guardarlo tanto attentamente nel cuore della notte, gli chiese: “Andy, che cosa ci fai qui?”. La risposta fu: Gesù, come dormi bene”. Parole che ci fanno intendere che la presenza di Andy Warhol in Sleep, seppur invisibile, è tuttavia incarnata dal suo voyeurismo, che diventa quello dello spettatore, alimentato dal continuo cambio di inquadrature che determinano una restituzione fittizia di un sonno reale. 

“Eat”, “Blowjob” e la camera fissa 

Bisogna attendere i successivi film Eat (che ritrae l’artista Robert Indiana mentre mangia) e Blow Job (in cui l’attore DeVeren Bookwalter riceve una fellatio) per notare come Warhol comprenda le potenzialità della cinepresa fissa nella restituzione del reale: i tagli e le inquadrature multiple non sono coerenti con la nostra percezione della realtà, dettata da un cambiamento nel nostro sguardo, non in ciò che ci circonda. È il soggetto a muoversi, non l’oggetto. Il montaggio risulta dunque una forzatura dall’alto, l’asserzione di un’espressione che, nella ricerca del realismo, delenda est. La cinepresa fissa è una dichiarazione: non della volontà di creare l’illusione della realtà, bensì di cogliere una “realtà a prescindere” (dalla mano dell’autore, da quello che accade e che potrebbe essere ripreso da diversi punti di vista). Nonostante la pluralità di inquadrature venga abolita, Eat e Blow Job conservano il ruolo voyeuristico del regista. Sempre più assente, certo, ma non ancora del tutto azzerato, Warhol sottolinea ancora una volta quello che lo spettatore deve guardare: lo fa scegliendo di utilizzare il primo piano (particolarmente significativo in Blow Job, poiché non inquadra la fellatio in sé, bensì esclusivamente il viso di chi la riceve e le reazioni che ne traspaiono), un’inquadratura non naturale per lo sguardo umano e quindi, nuovamente, una forzatura del reale in un prodotto che si rivela finzionale.  

VIDEO DA EMBEDDARE 

“Empire” e tra significato e sua assenza 

Questo ci porta al suo film più radicale: Empire. L’unica ragione per cui in Empire vediamo ciò che vediamo è il suo accadere (nell’accezione più etimologica del termine, che condivide la radice con la parola “caso”). Le uniche precondizioni che Warhol determina sono la posizione della cinepresa (e quindi la scelta di un soggetto dominante) e la durata; il resto è realtà in presa diretta. Warhol non ha alcun controllo su ciò che viene ripreso. Non ha la possibilità di interferire e ci restituisce un’inquadratura ampia, depersonalizzata. Non esistono voyeurismo, curiosità, imprevedibilità. Più che documentario, l’approccio di Warhol è in questo caso testimoniale, privo di intenzioni narrative. Eppure, a ben guardare, uno svolgimento c’è eccome: il cielo si spegne gradualmente e il grattacielo si accende, finché, alle 2.42 di questa notte di mezza estate, anche l’Empire State Building piomba nel buio. Un evento davvero quotidiano, non troppo diverso da quello che era accaduto le sere precedenti e che accadrà quelle successive. Ma che, trasportato nel terreno dell’arte, si apre inevitabilmente all’interpretazione: una metafora del fatale declino dell’Occidente, simboleggiato dallo spegnimento del suo faro più grande, l’edificio più alto del mondo di allora? Warhol non lo esplicita, proprio perché, come nel resto della sua produzione, usufruisce della realtà nella sua misura di ready-made privo di significato. Eppure, non resiste all’inganno: anche il minutaggio, che simula verosimiglianza e corrispondenza con quello effettivo, si rivela fittizio. Warhol ha infatti allungato la durata del filmato proiettandolo a 16 frame per secondo, a differenza dei 24 originali. In questo modo, il passaggio dalla luce al buio è graduale, costante ma impercettibile.  

La tensione tra realtà e finzione in Andy Warhol 

Quest’ultimo dettaglio non può essere sottovalutato: è forse la chiave per comprendere pienamente la tensione profonda che esiste tra realtà e finzione nell’opera di Warhol. Quella stessa tensione che Arthur Danto ha indagato per anni speculando sulle Brillo Box dell’artista di Pittsburgh. Una tensione che si risolve in una frase di Warhol, tanto perentoria quanto capace, se possibile, di lasciarci ancora più in bilico: “All my films are artificial, but then everything is sort of artificial. I don’t know where the artificial stops and the real begins” (“Tutti i miei film sono artificiali, ma dopotutto ogni cosa è in qualche modo artificiale. Io non so dove l’artificiale finisce e il reale comincia”). 

Alberto Villa 

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Alberto Villa

Alberto Villa

Nato in provincia di Milano sul finire del 2000, si occupa di critica e curatela d'arte contemporanea. Si laurea in Economia e Management per l'Arte all'Università Bocconi con una tesi sulle produzioni in vetro di Josef Albers e attualmente frequenta…

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