Artisti italiani antichi e contemporanei. La mostra di Pesce Khete e Michele Tocca a Vicenza
Al Torrione di Porta Castello la doppia personale parte da una conferenza dello scrittore Julian Barnes riferendosi alle esclamazioni di stupore, riflessione e sorpresa che spesso accompagnano i primi momenti in cui ci troviamo di fronte a un’opera d’arte
A Vicenza l’arte contemporanea occupa i piani alti e si relaziona con l’antico. Stagliandosi come il più maestoso edificio della città, il Torrione di Porta Castello si impone subito alla vista del visitatore per la sua mole tetragona e la sua squadratura militaresca: qui, sin dal 2019, ha luogo la sede espositiva della Fondazione Coppola. Rimasto in passato sempre inaccessibile al pubblico, l’edificio ha trovato una sua riqualificazione culturale grazie all’intervento di Antonio Coppola, imprenditore e collezionista con alle spalle una laurea in studi umanistici ad Harvard, il quale, dopo averlo acquistato e donato al Comune di Vicenza, ne ha finanziato il restauro con il vincolo di essere adibito a ospitare manifestazioni artistiche. Se a inaugurare il rinnovato spazio era stato chiamato il famoso pittore tedesco Neo Rauch, anche l’ultimo progetto espositivo consiste in un doppio dialogo in cui è la pittura a tenere banco.
La mostra di Pesce Khete e Michele Tocca
Siamo ora al il primo step, affidato all’interazione dei dipinti di Pesce Khete (Roma, 1980) e Michele Tocca (Subiaco, 1983), cui seguirà, il prossimo autunno, il confronto tra Luca Bertolo (Milano, 1968) e Manuele Cerutti (Torino, 1976). Il titolo che accomuna le due doppie personali, HM, HE, HA, è tanto enigmatico quanto perfettamente consono al tipo di atmosfera che si è inteso creare, in un rapporto di collaborazione quasi osmotico fra le due coppie di artisti e i due curatori, Elena Volpato e Davide Ferri. Esso è esemplato su quello di una conferenza dello scrittore Julian Barnes e si riferisce alle esclamazioni di stupore, riflessione e sorpresa che spesso accompagnano, in modo quasi automatico e come per prendere tempo, i primi momenti in cui ci troviamo di fronte a un’opera d’arte, e che secondo Edgar Degas era tutto quanto avesse senso dire davanti a un dipinto.
La mostra alla Fondazione Coppola
“Questo indugio, questa interrogazione preliminare si sono trasformati in un modo di procedere nel costruire la mostra”, ha detto Elena Volpato alla presentazione, concludendo poi con un auspicio: che, avuto agio di ponderare e di riflettere, “la mostra possa restituire, nell’ascendere, un canto che ci permetta di accettare questo balbettio iniziale per poi tornare con un nuovo occhio a quel suono dell’impossibilità di dire dopo aver ascoltato il canto”.
Per accedere all’esposizione si sale in ascensore per un certo numero di piani e poi, di soppalco in soppalco, ci si incammina all’insù per altri cinque livelli: interagendo con le strutture architettoniche dell’incavo della torre, lo sguardo dello spettatore non segue una linea retta ma si frantuma di piano in piano, si inclina salendo le rampe, durante la salita si affaccia di sbieco sulle opere, cogliendole nel loro dialogare, nel loro interagire, nel loro incastrarsi: le campiture nervose di Tocca si alternano alle vampate e alle sciabolate di colore di Khete, le compatte e tacite visioni del primo, colte nella flagranza dell’ora e della stagione si dànno il cambio con le apparizioni filamentose del secondo, gridate secondo i ritmi di una meteorologia e tempistica interiore.
Le opere di Khete e Tocca
Ma le opere dei due artisti, nella loro diversità, seguono anche un ritmo comune, e le loro caratteristiche formali e le loro tematiche interne si relazionano alla dinamica dello spazio.
Assistiamo – come è stato sottolineato dai curatori – a un progressivo alleggerirsi dei motivi dei dipinti a mano a mano che si sale, come se la visione dei quadri si uniformasse, con l’apparire delle finestre, alla vista sul paesaggio. Ecco così che la serie dei Siliconi di Khete (ovvero quei ghirigori pittorici rappresentati dai collanti usati per attaccare le insegne dopo che queste sono state strappate dai loro supporti) e la serie delle Giacchedi Tocca, esposte all’ultimo piano aperto sul panorama della città, farsi testimoni di una pittura più volatile e fluttuante, restituendo il senso di uno spazio che se all’inizio si mostra, come ribadisce Davide Ferri, “claustrofobico, caratterizzato da una sua terrosità , da una sua fangosità, via via che ci si appressa all’ultimo piano, esso comincia ad aprirsi”.
Alberto Mugnaini
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