Abbiamo chiesto agli esperti un parere sugli archivi di arte moderna e contemporanea
Quali sono i rischi di un lavoro non efficace sulla memoria e cosa ci stiamo perdendo? Il tema degli archivi d’artista è caldo e ricco di spunti su cui riflettere per progettare il prossimo futuro. In questo talk abbiamo raccolto le testimonianze di nove professionisti del mondo della cultura
Il “caso Carla Lonzi” ha riaperto il dibattito sugli archivi d’arte moderna e contemporanea. Qual è lo stato dell’arte? Come si pongono le istituzioni pubbliche a riguardo? Quali sono i rischi di un lavoro non efficace sulla memoria e cosa ci stiamo perdendo? Come intervenire sulla documentazione analogica e digitale? Sono queste le domande alla base delle riflessioni e delle testimonianze che abbiamo raccolto sugli archivi d’artista e sul loro futuro.
Il dibattito sugli archivi di arte moderna e contemporanea
Se alle soglie di questo secolo le ricerche artistiche hanno registrato un produttivo archival impuse (Foster), è innegabile che negli ultimi anni la questione dell’archivio abbia guadagnato una posizione privilegiata all’interno delle dinamiche del sistema espositivo internazionale, incrociando le riflessioni sul museo e, soprattutto, sollecitando anche in Italia specifici progetti curatoriali.
Mostrare gli archivi dell’arte non significa però dare soltanto visibilità a documenti e materiali riconducibili all’attività di artisti, critici, collezionisti, riviste o gallerie: ad essere oggetto di attenzione e di esposizione credo debba essere anche, e forse soprattutto, il processo che ha determinato la creazione di un archivio e le ragioni, mai scontate, della sua conservazione. Ogni archivio è infatti frutto di uno scarto, di un consapevole gesto selettivoo di un incidente che nel circoscrivere il passato orienta il futuro. Gli archivi, ha detto Achille Mbembe, in quanto dispositivi mettono in relazione il mondo dei morti e il mondo dei vivi, i documenti sono dei fantasmi a cui dobbiamo dare parola, forma pubblica assumendoci ogni volta il rischio della parzialità. Si tratta di un atto critico e, insieme, politico: Derrida non ha mancato di sottolineare che la qualità di una democrazia si misura dal grado di accessibilità degli archivi. E questo vale naturalmente anche per gli archivi dell’arte.
Stefania Zuliani, storica dell’arte, Università degli Studi di Salerno
Ho personalmente svolto tutto il percorso di studi attraverso il lavoro di spoglio, consultazione e ricerca negli archivi d’arte e lavoro come curatrice scientifica in diversi archivi d’artista. Il problema che per la mia esperienza nell’arco di oltre vent’anni continua a porsi è duplice: da un lato, quello della conservazione adeguata dei materiali cartacei; inutile dire che anche se le istituzioni si fanno carico di acquisizione e deposito di fondi e archivi, non basta “averli”, ma serve che i materiali siano correttamente salvati dall’usura del tempo e, anche, dallo spoglio spesso selvaggio di molti utenti; secondariamente, la digitalizzazione. Non serve semplicemente riprodurre i documenti cartacei, ma occorre trovare un sistema di catalogazione e messa a disposizione efficace: altrimenti le carte non parlano. È un impegno complesso e dispendioso, necessario per non disperdere un patrimonio fondamentale. La restituzione dei fondi certo non è l’azione migliore, ma mette in luce l’urgenza che si intervenga, pubblicamente, per far vivere gli archivi, non tenerli in vita come dei malati terminali: e farli vivere significa affidarli a chi li conosce, li studia, li può sistematizzare.
Ilaria Bignotti, curatrice
Conosciamo tutti l’importanza degli archivi per l’arte contemporanea, sia in quanto materiale per gli studiosi, sia come fonte e modello concettuale e metodologico per artisti e curatori.
È questa consapevolezza che mi ha spinto a donare l’Archivio trentennale dello Studio Stefania Miscetti alla Galleria Nazionale di Roma.
In materia di archivi credo sia fondamentale garantire continuità e progettualità, ed è questo il motivo per il quale ho deciso di affidare il mio ad un’istituzione pubblica. A mio avviso sono questi due elementi a dover indirizzare azioni e procedure che ne permettano la salvaguardia e la fruibilità – indispensabili per garantire la sopravvivenza degli archivi analogici nell’era del digitale – ma soprattutto la loro riattivazione. L’istituzione deve sfidare il tempo, superando contingenze e posizioni individuali, essere terreno fertile dove i documenti del passato nutrono l’immaginazione del presente, diventando visioni del futuro.
Stefania Miscetti, gallerista
Definire l’arte contemporanea è un processo aperto che necessita di un aggiornamento continuo in termini di coscienza critica e metodologia storica, dove l’archivio, fisico o digitale, detiene un ruolo primario. Costituire, tutelare, prendersi cura degli archivi sono gesti imprescindibili per il contemporaneo (in Italia, Celant e Lonzi sono stati tra i primi a rimarcare l’importanza dell’“archivio come pratica”), tanto per gli storici, quanto per i critici, i curatori, gli stessi artisti e, non ultimi, i funzionari pubblici. Senza un impegno da parte degli enti pubblici museali è arduo garantire la sopravvivenza di materiali fragili ed eterogenei come quelli dei fondi storico-artistici, minacciati da diverse incertezze, tra cui la particolarità dei singoli lasciti, l’inaffidabilità dei sistemi di archiviazione, gli interessi politici ed economici.
Controllare gli archivi è avere il potere sulla memoria, per questo è doverosa un’assunzione di responsabilità che li preservi come luoghi di possibilità sempre accessibili.
Cristina Baldacci, storica dell’arte Università Ca’ Foscari Venezia
Tardivamente, dopo decenni di indifferenza, anche in Italia è maturata la consapevolezza che gli archivi delle arti visive contemporanee costituiscono una risorsa essenziale: critici, gallerie, artisti, studiosi, editori, lasciano dietro di sé testimonianze decisive per lo studio e la comprensione dei fatti artistici più recenti. D’altro canto, oggi non si può più immaginare il museo senza il supporto dell’archivio inteso non come “deposito” ma come parte viva dell’attività di ricerca e riflessione critica e come elemento essenziale degli stessi allestimenti di collezioni e mostre. Occorre dunque incrementare le risorse a disposizione delle istituzioni museali, creare o rafforzare al loro interno archivi aperti al passato recente, utilizzando le tecnologie per rendere accessibili documenti e pubblicazioni. Per superare la stantia contrapposizione, tutta italiana, tra la venerazione del passato e il disinteresse verso il presente, va rafforzata in definitiva una visione della storia come processo in perpetuo divenire, di cui i “nuovi” archivi si rivelano una componente essenziale.
Stefano Chiodi, storico dell’arte, Università Roma Tre
Il caso dell’Archivio Carla Lonzi rivela la crisi di valori condivisi all’interno di un tessuto eterogeneo di operatori del settore culturale, quella del concetto stesso di memoria, parola logora, trasformata in un cartello senza identità. Se non si mappa il patrimonio non è tanto per mancanza di personale, o di spazi, ma per la scellerata accettazione, o inconsapevolezza, che così facendo si cancelli non solo la visibilità di individui, ma anche quella di intere comunità.
Mentre qui diventano inaccessibili i lasciti materiali di studiosi e artisti, in altri Paesi conservano i siti Internet di non profit degli Anni Duemila. Preferisco “risorsa” ad “archivio”, perché non finisca come “memoria” e lo dice chi di “risorse” ne ha create diverse. Come ricorda la storica dell’arte Beatrice Von Bismarck parlando dell’archivio di Harald Szeemann, l’acquisizione del Getty di Los Angeles non mirava tanto a ricreare il ritratto di un curatore quanto quello un’intera era, del modo di fare mostre e della produzione culturale di circa quarant’anni[1]. Il caso dell’archivio Lonzi è simile a molti altri, umiliati, dimenticati, come l’Archivio Gramsci ai Cantieri della Zisa di Palermo. Senza la conoscenza della storia di ieri siamo condannati ad assistere alla ripetizione di pratiche vecchie con titoli e mezzi nuovi, ad un panorama di stagnazione culturale.
Eva Frapiccini, artista, docente Accademia di Brera
I più importanti musei internazionali e italiani da tempo hanno individuato nella relazione tra archivio e collezione il nesso attraverso il quale interpretare il museo come luogo di ricerca – le linee guida ICOM indicano del resto chiaramente questa direzione. L’attività di valorizzazione che un’istituzione museale può fare rispetto a un archivio è preziosa e molteplice. A partire dall’organizzazione e fruibilità dei fondi, al coinvolgimento della comunità scientifica nel promuoverne lo studio alla presentazione e prestito di documenti in occasione di mostre, è proprio il museo a dimostrare che l’archivio non ha solo a che fare con la preservazione del passato, ma è un organismo vivo che interroga il presente e che rende attivo e critico il museo stesso. In questo senso il caso del fondo Lonzi presso la Galleria Nazionale è emblematico: la riscoperta della sua figura che ora è nota anche al pubblico più ampio è partita proprio dall’arrivo dell’archivio alla Galleria che lo ha attivato attraverso convegni, mostre, premi, prestiti a cui sono seguite traduzioni, riedizioni degli scritti e interesse in abito internazionale.
Cecilia Canziani, curatrice e storica dell’arte
Ancora una volta l’Italia non smentisce sé stessa. Non è da credere che un fondo come quello di Carla Lonzi, che avrebbe fatto fiera qualsiasi istituzione culturale internazionale, viene sospeso – al contrario – nel suo comodato d’uso tre anni prima della effettiva scadenza per essere restituito al proprietario. Ammetto comunque che, anche per l’Italia, è un’azione in contro-tendenza visto che musei come il Castello di Rivoli e il MAXXI o istituzioni come la Biennale di Venezia, da qualche anno, hanno cominciato a incorporare archivi di artisti e curatori. Allo stesso modo, Archivi di Stato cercano di lavorare con l’arte contemporanea, mentre archivi d’artista si mobilitano attivamente e autonomamente per mostrare il loro importante operato con iniziative di ampio respiro. Non posso dire: “nulla di nuovo sotto il sole” anche se tutto è ancora da fare. Sta cambiando la nostra percezione del tempoe non ce ne accorgiamo, grazie alle interfacce digitali possiamo concepire archivi dinamici, generativi e non dispositivi retroattivi. Scannerizzare o inventariare non è l’aspetto primario rispetto alle aggregazioni indefinite di passato che il digitale consente. Mentre a noi non spetta altro che celebrare la nostra perdita documentale…
Marco Scotini, curatore
A cura di Santa Nastro
[1] Becker, Christa; Von Bismarck, Beatrice, “Positioning Difference: The museological Archive?” in The Archive as a productive space of conflict, di Markus Miessen e Yan Chateigné, Sternberg Press, Berlin, 2016
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati