Il padiglione della Polonia alla Biennale Arte di Venezia. Probabilmente il migliore
In una Biennale Arte 2024 poco stimolante e con tante criticità, spicca il padiglione polacco, che ospita il collettivo Open Group. Un racconto per suoni della guerra in Ucraina, tramite le voci degli stessi rifugiati
Il titolo della Biennale Arte di Venezia di quest’anno è tratto dall’opera esposta all’ingresso della mostra, un neon del collettivo Claire Fontaine con la scritta “Stranierə Ovunque“.
Anche un tema del genere, persino con la schwa, poteva essere una buona occasione per fare una grande Biennale, purtroppo però nella sessantesima Esposizione Internazionale d’Arte il titolo del curatore Adriano Pedrosa è stato declinato nel modo più prevedibile e banale: in generale il tema è stato saldato all’intersezionalità e ridotto ad una trita critica dell’Occidente brutto e cattivo, colpevole di essere ricco, di aver praticato e di praticare il colonialismo e l’oppressione di popoli e individui. Tutto questo si traduce in un insieme di opere in massima parte modeste, sciatte, vecchie, a volte etniche, come paccottiglia affastellata in un mercatino.
I limiti della Biennale Arte di Venezia 2024
Di fronte a questa scarsità, le didascalie hanno preso paradossalmente il sopravvento sulle opere stesse, cercando di colmarne le lacune, con esiti spesso controversi: si parla di “processi migratori transnazionali nel contesto del neoliberismo egemonico, come una lotta che spinge a nuovi modi di abitare il mondo“. Sono intese come migrazioni anche le transizioni di genere “concepite come rottura del binarismo eterosessuale” per riunire “le alleanze tra l’attivismo che critica il capitalismo e i movimenti LGBTQ+“. E ancora, le opere infrangono “i concetti del patriarcato imperiale non solo di potere e bellezza, ma anche di esistenza e della stessa esperienza“.
Che una biennale proponga elementi di questo tipo non è di per sé un problema, perché l’arte contemporanea contiene molto spesso una radice inevitabilmente “progressista” più o meno estrema. Qui il problema è la linea generale della mostra, il tentativo cioè di riunire nel concetto di straniero alcune presunte componenti del progressismo senza neanche affrontare le contraddizioni profondissime che queste generano quando sono messe tra loro in relazione.
Questo livello va forse bene per Twitter/X, non certo per la Biennale di Venezia.
Il bell’esempio del Padiglione Polonia
Le pochissime eccezioni a questa deriva woke sono quasi tutte fuori dall’Arsenale e dal padiglione centrale dei Giardini; la migliore è il padiglione della Polonia, che merita di essere raccontato. Chi entra vede il buio; qualche secondo per adattare la vista all’oscurità e si intravedono al centro alcune sedie e dei tavolini, come in un bar. Agli estremi dello spazio rettangolare ci sono due grandi schermi e davanti ad essi sono posizionati dei microfoni. L’opera del collettivo Open Groupsi chiama Repeat After Me ed è molto semplice: i video riprendono frontalmente una serie di rifugiati ucraini, persone comuni che hanno visto e udito le atrocità alle quali la Russia di Putin ha sottoposto il loro Paese. Ciascuno, dopo aver detto “ripetete dopo di me“, interpreta con la propria bocca e con la propria voce un suono della guerra, quello che lo ha colpito di più, quello che non potrà mai dimenticare: chi le sirene, chi le bombe, chi i missili, i cingoli dei carri armati, il kalashnikov, gli elicotteri. Tum tum tum tum tum tum tum tum. Come in un karaoke bar, il visitatore è chiamato ad avvicinarsi ai microfoni e ripetere quel suono, leggendone persino la trascrizione nel sottotitolo del video, come nel famoso gioco canoro.
Il coinvolgimento dello spettatore nel Padiglione Polonia
L’opera riesce miracolosamente a stabilire un vero contatto con lo spettatore, a realizzare un’interazione non innocua: nel ripetere il suono, nel vedere quei volti, il visitatore condivide un pezzo di quell’esperienza mostruosa e disumana. Ma in quell’atto non emerge solo l’empatia, c’è anche un senso di inadeguatezza e vergogna: il visitatore emette quei suoni al sicuro dentro una mostra, in un karaoke bar, imitando chi ha davvero visto e udito l’orrore. Tutto questo rende palese l’ipocrisia dei dibattiti televisivi sul presunto pacifismo, sull’opportunità di inviare le armi, su quali sono offensive e quali difensive.
Repeat After Me e la rappresentazione della guerra
Il 24 febbraio 2022 gli ucraini hanno visto davvero stranieri ovunque nel loro Paese, stranieri veramente invasori, stranieri veramente armati e pronti a commettere ogni nefandezza. Lo leggiamo tutti i giorni sul giornale, lo ascoltiamo al TG, nei talk show, ne parliamo preoccupati, eppure nella Biennale la questione sembra come nascosta da una cappa di terzomondismo, primitivismo, intersezionalismo. Come se l’oppressione subita dagli ucraini non meritasse di essere inclusa nelle tante oppressioni coloniali contemplate nella mostra.
Fa riflettere il fatto che il precedente governo polacco di estrema destra aveva inizialmente selezionato un diverso allestimento per il padiglione della Biennale: un insieme di opere dai toni anti russi ma anche anti europei e sovranisti. Con la vittoria di Donald Tusk e con l’insediamento del nuovo governo, la Polonia ha deciso di cambiare e di selezionare Open Group. Scelta felicissima, perché Repeat After Me, nella sua semplice astrazione, non rappresenta soltanto la guerra in Ucraina, ma la guerra in generale, che è il fatto centrale di questo momento storico, che sta sconvolgendo l’occidente e il mondo. I rifugiati ucraini sono stati ripresi nei luoghi più diversi, a Berlino, a New York, in Irlanda: loro stessi sono stranieri e sono ovunque ed è per questo che il padiglione della Polonia centra il tema della Biennale con più precisione e con più coraggio della mostra del curatore. È un bene che sia presente ai giardini ma purtroppo da solo non basta a salvare la Biennale di quest’anno.
Francesco Napolitano
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