Ecco come le mostre sono diventate un medium artistico
Il nuovo libro di Vincenzo Di Rosa approfondisce le modalità attraverso cui la mostra diventa un effettivo medium della pratica artistica, al di là dei mezzi tradizionali. Uno spostamento di fuoco e di scala dell’opera d’arte che ha radici profonde e sviluppi ancora poco esplorati
Può una mostra essere un medium artistico? A questa complessa domanda risponde Vincenzo Di Rosa con il suo saggio Mostra come medium pubblicato da Mimesi Edizioni. Questo prezioso volume si addentra in un ambito di studi ancora poco battuto per raccontare come le mostre siano a tutti gli effetti state utilizzate dagli artisti come veri e propri medium con i quali esplorare ed ampliare gli orizzonti espositivi tradizionali. L’approccio proposto dall’autore cambia, o meglio, definisce con consapevolezza il ruolo di mediazione sempre agito dalla mostra, invitando “ad assumere una determinata modalità di visione”. L’altro aspetto specifico delle mostre è che queste si fondano su una dipendenza da altri medium che in essa sono contenuti. Proseguendo nella lettura, l’autore ci accompagna nell’analisi della trasformazione della mostra in medium artistico, quindi agito in prima persona da chi ne è parte “esposta”. Ciò che differenzia la mostra come medium è lo “spostamento dell’attenzione dal singolo oggetto alla rete che tiene assieme i vari oggetti”. A questo aspetto fondamentale vanno aggiunti la sovrapposizione tra pratica artistica e attività curatoriale, così come l’appropriazione simbolica dello spazio espositivo.
Le tipologie di mostre
A partire da questi aspetti vengono raccontate una serie di mostre particolarmente esplicative, divise per approcci e finalità: le “Mostre Labirinto”, nate in risposta al modello dei White Cube, sono un vero e proprio filone. Esemplificativo di questo genere è l’esposizione Les Immatériaux tenutasi al Centre Pompidou nel 1983 e curata da Jean-Francois Lyotard: in questa mostra l’obiettivo è quello di portare a espressione una tensione instabile e transitoria, facendo smarrire lo spettatore in un dedalo di sensazioni e percorsi. Un’altra tipologia di mostra presa in esame è quella di tipo “Politico-Attivista”: in questo caso, viene presa in analisi l’attività espositiva del Group Material, come la mostra del 1981 intitolata The People’s Choice, per la quale furono agli abitanti del Lower East Side fu chiesto di portare nello spazio espositivo degli oggetti personali che reputano importanti, cambiando così il paradigma del concetto di opera d’arte, la sua autorialità e la sua forza di inclusività.
Un’altra categoria è quella delle “Mostre Anti-Museo” il cui esempio probabilmente più importante è Viewing Matters: Upstairs Mixed Message del 1996, tenutasi al Museum Boijmans di Rotterdam. In questa mostra Hans Haacke modificò radicalmente l’esposizione permanente del museo olandese e, imitando il caotico display del magazzino del museo, volle rendere visibile l’influenza della storia dell’arte e delle istituzioni sulla costruzione di una coscienza sociale.
Tra mostre autoritratto e mostre fiction
Raid the Icebox 1 with Andy Warhol è invece una tipologia di che si può definire come “Autoritratto”: l’artista, prendendo sempre dal deposito del museo, in questo caso il RISD Museum, selezionò totalmente a suo gusto oltre quattrocento oggetti compresi in un arco temporale che andava dal 1.000 a.C. fino al 1966, allestendole esattamente come si trovavano nel deposito. L’autoritratto di Warhol emerge dal suo gusto e dalla rappresentazione di se stesso, in bilico tra elitario e popolare, tra raffinato e pacchiano.
Ultima tipologia di mostra presa in esame è quella delle “Mostre Fiction”, come quella allestita al Reina Sofia da Dominique Gonzalez-Foerster ed Enrique Vila-Matas, intitolata Splendide Hotel. Questa esposizione prende vita nel corso di due anni su una “storia segreta” scritta da due artisti per configurare lo spazio in cui è stata allestita la mostra “una costellazione finzionale, transitoria fluttuante. Chiude il libro l’analisi approfondita di due esposizioni, una di Philippe Parreno e l’altra di Pierre Huyghe, rappresentative di un approccio, di una modalità artistica, l’arte relazionale, che dagli Anni Novanta ha cambiato radicalmente non solo la concezione di mostra ma anche quella di opera d’arte. Questo ulteriore sviluppo si caratterizza per un coinvolgimento attivo dei luoghi, del tempo, degli spettatori. Quest’ultimi in particolare diventano un elemento vitale e attivo del processo di trasformazione dell’opera e quindi della mostra. Per approfondire il concetto di mostra come medium, abbiamo intervistato l’autore Vincenzo Di Rosa.
Intervista a Vincenzo Di Rosa
Qual è il discrimine che esiste tra una mostra tradizionale e una mostra come medium?
Ogni mostra è un medium. Allo stesso modo del cinema, della televisione o della radio, la mostra è un mezzo di comunicazione. Nel libro provo a definire un utilizzo artistico di questo medium. Un utilizzo che differisce in maniera sostanziale da quello canonico. Nelle tradizionali esposizioni d’arte contemporanea ci troviamo difronte a una disposizione di oggetti e opere più o meno coerente, selezionati e ordinati secondo criteri curatoriali o storico-artistici. Queste mostre hanno, generalmente, un carattere transitivo: sono sistemi “al servizio” di ciò che presentano e assolvono a una funzione di mediazione. Le esposizioni-opere, invece, sono mostre che mostrano innanzitutto se stesse. Non sono occasioni dimostrative, ma momenti creativi che rompono i margini della presentazione e mettono al centro la loro logica, il loro funzionamento, piuttosto che gli oggetti, le immagini e gli artefatti che accolgono. Nel libro le paragono a delle “cornici giganti”, delle cornici fuori scala, che invece di “servire” o accompagnare l’opera d’arte, la invadono, la trasfigurano e diventano esse stesse opere d’arte.
Gli artisti hanno avuto e hanno la consapevolezza di utilizzare le mostre come un medium artistico o la mostra diventa un medium perché quest’ultima entra a far parte della poetica e della pratica artistica?
Gli artisti che hanno utilizzato le esposizioni come medium artistico, nella maggior parte dei casi, lo hanno fatto in maniera consapevole, e hanno concepito la curatela come parte integrante della loro pratica artistica. Penso al Group Material, che all’inizio degli Anni Ottanta ha organizzato diverse mostre partecipative in un piccolo spazio nel Lower East Side di New York, o anche a un artista come Fred Wilson che, nel 1992, ha riallestito la collezione del Maryland Historical Society a Baltimora. A partire dagli Anni Novanta, la consapevolezza di un’effettiva “condizione curatoriale” – come l’ha definita David Joselit – ha fatto si che diversi artisti iniziassero ad agire su quello spazio di confine che esiste tra opera d’arte e spettatore.
Per esempio quali artisti?
In questo senso, è stata fondamentale l’attività di artisti come Philippe Parreno, Dominique Gonzalez-Foerster, Maurizio Cattelan, Pierre Huyghe, Thomas Hirschhorn, Sophie Calle, che, in maniera sicuramente differente, hanno pensato i propri lavori in relazione o in risposta a determinati contesti espositivi; hanno ragionato sulle modalità di presentazione delle loro opere, sulla presenza e la posizione dell’osservatore, e hanno quindi spostato il cuore della loro pratica dalla produzione di opere d’arte intese come “oggetti finiti” alla costruzione di situazioni, ambienti, mostre. Si tratta di un metodo progettuale che, volendo ricostruire una piccola genealogia, affonda le sue radici nel Pavillon du Réalisme di Gustave Courbet, nel Kabinett der Abstrakten di El Lissitzky, negli allestimenti duchampiani degli Anni Trenta e Quaranta, nell’ostinata contestazione di Daniel Buren, nel Musée d’Art Moderne – Département des Aigles di Marcel Broodthaers.
Dopo aver letto il libro mi chiedo se la figura del curatore non sia in molti casi un limite nello sviluppo della pratica artistica che potenzialmente potrebbe sempre includere la realizzazione della mostra stessa da parte dell’artista o degli artisti coinvolti.
Non credo che per gli artisti interessati a riflettere sulle potenzialità del medium espositivo la figura del curatore costituisca un limite, anzi. Un curatore che si relaziona a una simile pratica deve essere capace di ricalibrare le proprie azioni dal momento che, non potendo più intervenire sulla “scrittura” espositiva, deve in ogni caso facilitare e a rendere accessibile il lavoro dell’artista, assumendo una funzione di mediazione.
Il curatore diventa un “limite” quando utilizza le opere d’arte per giustificare le proprie teorie e le proprie convinzioni. Quando tratta gli artisti come figurine per riempire buchi e coprire minoranze. Quando si piega ai ritmi di un sistema ipertrofico che necessita sempre di nuovi contenuti e di nuove tematiche. Quando non ascolta gli artisti, quando ne segue cinquanta, sessanta, settanta, senza conoscerne realmente il lavoro. Quando basa le sue mostre sull’ultimo libro di Theory. Quando trasforma l’opera in pretesto e non ne indaga il segreto, il silenzio.
Guardando al panorama attuale vedi un approccio diverso da parte di artisti e curatori nella realizzazione delle mostre? C’è un interrogarsi sulle potenzialità della mostra come medium nel dibattito contemporaneo?
Nel panorama contemporaneo vedo senza dubbio una grande attenzione alla questione del display – penso ad alcune mostre di Michael E. Smith e Nina Beir, ma anche al lavoro di tre artisti italiani che apprezzo molto, come Alessandro Di Pietro, Anna Franceschini e Alfredo Aceto. Tuttavia, soprattutto in Italia, credo si insista molto sui linguaggi tradizionali della pittura e della scultura, e sulle sperimentazioni nel campo del video e della fotografia. Non penso che tutti gli artisti debbano necessariamente interrogarsi sulle potenzialità della mostra come medium, ma credo che tutti debbano rendersi conto del “potere” curatoriale, e dell’influenza che ogni atto di mediazione ha sull’opera d’arte. Il libro che ho scritto, sebbene si rivolga a storici dell’arte, a curatori e a critici, spero che in realtà possa servire soprattutto gli artisti.
Dario Moalli
Vincenzo Di Rosa – Mostra come Medium
Mimesis Edizioni, 2024
pag. 284, € 28,00
ISBN 9788857593265
https://www.mimesisedizioni.it
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