Il ritorno alla natura. L’artista Hans Haacke in mostra al Museo Burel di Belluno
Il Leone d’oro alla Biennale del 1993 arriva a Belluno con l’opera Grass Grows. Una montagna incantata che però ci ricorda la probabile fallacia di ogni impresa umana
Chi ha seguito dal 2019 le proposte del Museo d’arte contemporanea Burel, che Daniela Zangrando dirige, sa che benché lontano dalle traiettorie mainstream delle capitali italiane della cultura, il museo ha già permesso di incontrare nomi di prima grandezza dell’arte contemporanea mondiale come Jan Fabre, Christian Boltanski o Roman Signer, per citare i più storici.
La mostra di Hans Haacke a Belluno
L’estate 2024 ha visto invece inaugurare un’installazione totale di Hans Haacke (Colonia 1936), il Leone d’oro della Biennale 1993. È l’opera “Grass Grows” (1967-1969), una piramide di terra impastata di semi d’erba, che fin dai primi giorni dopo l’apertura della mostra ha cominciato a modificarsi seguendo il percorso voluto dall’artista, costringendo magneticamente i visitatori a tornare e tornare più volte per seguirne l’evoluzione.
Una montagna rinchiusa in una stanza, un paradosso doppiamente evocativo tra le vie di Belluno, dove le Dolomiti si affacciano tra le case ad ogni scorcio, con la parete della Schiara cara a Buzzati, il gruppo in cui si cela anche la verticale assoluta del Burel, che dà il suo nome al Museo. E la piramide conica nata in un giorno d’estate all’interno di uno spazio totalmente umano come è una stanza diventa una specie di “Zauberberg”, una montagna incantata salvifica/mortifera dal richiamo irresistibile e comunque destinata – nonostante lo sforzo quotidiano della cura – a ricordarci la caducità di ogni nostra impresa.
Il ritorno alla natura nell’opera di Hans Haacke
Ma in ambito italiano, e più ancora bellunese, vi si coglie l’eco inquietante di quelle gobbe che Dino Buzzati aveva scoperto sorgere improvvisamente dal prato del giardino di casa in certe notti molto particolari, quando il loro sorgere doveva segnalare una nuova assenza, come aveva scritto nel racconto “Le gobbe in giardino” uscito nella raccolta “Il Colombre” del 1966.
Ospitando “Grass Grows” di Haacke gli spazi del Museo Burel spingono a confrontarsi con l’incontro/scontro tra tempo e spazio, il tempo che modifica le cose (in questo caso facendo crescere poco alla volta un fitto tappeto erboso sulla superficie della montagna) e lo spazio della stanza praticamente occupato quasi interamente da quell’eruzione di terra che, come la tana di una enorme talpa inquietante, è risalita dalle viscere della terra fino a costringere i visitatori a camminare rasente le pareti per girarle intorno. Un’installazione che interroga e provoca, che spiazza e che impone di tornare.
L’opera nelle parole della direttrice del Museo Burel
Banalmente può sembrare un ritorno alla natura, nel cuore della città. Ma la montagna in miniatura di Haacke è un monito che riporta all’assoluto, all’essenziale. È un intervento totalmente umano, ma allo stesso tempo totalmente naturale, che costringe a guardare da vicino la terra, l’erba che nasce, e rinasce, e costringe alla cura in questa estate rovente, dandole ogni giorno l’acqua che le dà vita, anche se già è scritto che nonostante ogni sforzo anche quell’erba compirà il suo ciclo, ritornando terra.
Come spiega Daniela Zangrando nella brochure che accompagna i visitatori alla scoperta della mostra: “naturalmente Hans Haacke non ha bisogno di alcuna presentazione. Chiunque abbia un minimo di familiarità con i linguaggi del contemporaneo, l’ha almeno sentito nominare per i nodi concettuali trattati dalla sua ricerca, per la forza critica e politica di alcuni lavori, per i premi di cui è stato insignito. Ma cosa ha a che vedere la sua ricerca con il filo conduttore dell’anno del Museo Burel, cioè la natura morta? Ci sono alcune opere di Haacke, realizzate tra il 1965 e il 1972 circa, che si inseriscono proprio in questo ambito. Lo centrano, indagandolo e mettendolo anche fortemente in discussione. Sono opere che vedono in campo formiche, piante di fagioli, gabbiani, tartarughe, fili d’erba, pulcini, semi, capre; animali e piante esplorati non tanto quanto elementi ed esseri viventi in sé, ma come agenti di un processo di crescita e di cambiamento. Che danno vita a dei sistemi scultorei e biologici che comunicano, influenzano e si fanno influenzare dall’ambiente circostante, che scambiano informazioni, energia, materia. Natura viva, viene da dire, ma che lancia sempre un pensiero avanti, al rapporto tra natura e cultura, tra natura e artificio, e ancora tra natura e ambito sociale, ecologia, politica”.
Marco Perale
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