Il mercato dell’arte è in crisi. Ma è davvero un male?

L’arte ha bisogno di arricchire il proprio mercato. Lo dicono i dati – poco incoraggianti – delle aste di questo 2024. E se la crisi celasse un’opportunità?

Nel corso del 2024 si sono avvicendate le notizie di un tendenziale rallentamento del mercato dell’arte. Come riportato da AGI, nel primo semestre del 2024 Sotheby’s ha registrato un calo dell’88% dei profitti dall’attività caratteristica. Calo che, secondo il Financial Times, andrebbe attribuito ad una generale riduzione del mercato dell’arte e alla tendenziale flessione delle spese in beni di lusso registrati in Cina. A dare solidità a questa tesi, i dati di Christie’s che pure hanno registrato un calo del 22% delle vendite d’asta. Già prima di questi risultati, tuttavia, Forbes (ad aprile del 2024) annunciava un andamento simile, commentando così le performance del 2023: “Il mercato dell’arte frena per la crisi economica e le tensioni geopolitiche. Tengono i passion assets, stallo per gli NFT e la cryptoarte”.

La distorsione del mercato dell’arte negli ultimi decenni

Al di là degli aspetti di “cronaca economica”, questi dati forniscono l’opportunità di evidenziare una tendenziale distorsione storica che il mercato dell’arte ha conosciuto a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso. L’idea che l’arte potesse essere oggetto di investimento, a dire il vero, è ben nota da sempre; negli ultimi 30-40 anni però, l’identificazione dell’arte come un asset specifico all’interno del mercato finanziario è divenuta sempre più evidente. Per dare un ordine di grandezza: qualche anno fa, Artprice.com ha proposto un approfondimento sulle performance di mercato registrate dall’arte contemporanea, evidenziando una crescita poderosa, sia in termini di vendite, sia in termini di fatturato. Sono dati che permettono di inquadrare la dimensione in modo più chiaro.

Il riassestamento del mercato è necessario

Sotto il profilo prettamente economico-finanziario, e quindi analizzando l’arte dalla sola visione dell’investimento, risulta del tutto naturale che un mercato cresciuto così tanto presenti un riassestamento. Riassestamento che tuttavia si concentra maggiormente sulla dimensione finanziaria dell’arte, e non su quella legata a ciò che in altri contesti si potrebbe definire “economia reale”. Ovviamente, un calo degli investimenti finanziari in un dato settore implica che anche l’economia reale che sottende tali investimenti venga penalizzata: ma nel caso dell’arte, questa correlazione potrebbe essere meno evidente di quanto accade in altri segmenti più tradizionali. Ed è proprio questa la potenziale distorsione che il grande interesse nell’arte nutrito dai grandi ricchi del pianeta ha in parte generato: non tanto una “mercificazione dell’arte”, locuzione che per somma fortuna di noi tutti è sempre più in disuso, quanto una separazione tra la catena di creazione del valore della dimensione “reale” dell’arte, e la catena di creazione del suo valore finanziario.

Bid telefonici da Bonhams
Bid telefonici da Bonhams

Il mercato rallenta, ma è davvero un male?

In altri termini, la produzione di arte contemporanea e i valori raggiunti dall’arte contemporanea sul mercato secondario (le aste), hanno iniziato in qualche modo a “separarsi”. Un dato tra tutti. Nell’approfondimento proposto da Artprice, il “best performing artist” è stato Basquiat. Si tratta di un artista che rientra senza dubbio nelle definizioni canoniche di arte contemporanea, ma pur volendo a tutti i costi evitare una “guerra tra definitori” qualcuno lo dovrà pur dire che quando Basquiat è morto, Berlino era ancora divisa da un muro. Così come va altresì sottolineato (qui con minor timore di acrimonia) che Basquiat, prima che iniziasse questa crescita imponente del mercato dell’arte, di certo non era considerato un esordiente o un emergente. Ciò significa che il potenziale rallentamento del mercato dell’arte di cui si parla (che va ancora confermato sul dato annuo, e con una prospettiva almeno triennale), non necessariamente è un “male” per il mercato dell’arte (inteso nel suo complesso), che può invece puntare su una catena di creazione del valore solida e consolidata.

In ogni crisi c’è un’opportunità

Soprattutto, può essere una valida opportunità per quella dimensione dell’economia reale legata all’arte: dalla flessione di un segmento può nascere un incremento in altre tipologie di acquisti,  caratterizzati magari da un minor importo unitario, come le opere di artisti esordienti ed emergenti, ma dal cui sviluppo potrebbe emergere una diversificazione delle fonti di ricavo, così come su un altro versante potrebbe emergere una maggiore adesione tra l’arte prodotta e l’arte commercializzata e quindi lo sviluppo di un’estetica che lega il “gusto” alle nuove produzioni. Sia chiaro: di certo un calo dei profitti non genererà una rivoluzione culturale. Ma è pur vero che in momenti di “crisi”, si mettono in discussione alcune scelte altrimenti date per corrette, e si possono aprire nuove prospettive e nuove sensibilità. Nuove sensibilità che possono essere anche nuove “opportunità”: la stragrande maggioranza delle persone al mondo non compra arte. Né tantomeno si sogna di comprare arte contemporanea. E forse, la stragrande maggioranza delle persone al mondo può oggi risultare un target più interessante rispetto a quanto potesse esserlo tre anni fa.

Stefano Monti

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Stefano Monti

Stefano Monti

Stefano Monti, partner Monti&Taft, è attivo in Italia e all’estero nelle attività di management, advisoring, sviluppo e posizionamento strategico, creazione di business model, consulenza economica e finanziaria, analisi di impatti economici e creazione di network di investimento. Da più di…

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