Intervista al grande artista Marco Bagnoli tra storia e alchimia
Un vaso monumentale che ruota su se stesso seguendo i movimenti della Terra. Questa l’opera site-specific che Marco Bagnoli ha pensato per la Reggia di Caserta. Ce lo racconta (insieme a molto altro) in questa intervista
In chiusura della sua mostra La pietra il sol rivegga alla Reggia di Caserta, abbiamo incontrato l’artista Marco Bagnoli (Empoli, 1949). Ne abbiamo approfittato per parlare della sua carriera e dei temi ricorrenti nel suo lavoro.
In questo momento si parla molto di Intelligenza Artificiale, e so che anche tu stai sperimentando in questa direzione. Qual è il tuo pensiero da artista su tutta questa discussione?
Sembra risolversi ieri e oggi, almeno per l’arte, nell’aspirazione verso la creazione della statua vivente. Così pare avesse voluto lo stesso Michelangelo con il Mosè. Ma è cosa impossibile in scultura seppur ricercata nei movimenti degli automi per la meraviglia dei visitatori di giardini e fontane come avvenne per il Mercurio a Palazzo Medici di Firenze. Ma allora erano utili a evocare per analogia i teatri della memoria più che ad allineare sostituzioni meccaniche. Ne incontrai uno a Parigi ad una fiera mentre partivo per Documenta e gli chiesi: “Vieni con me per fare una conversazione a Documenta?” E lui rispose giustamente: “Ma Documenta che cos’è?” Certo … se non ci metti il vino … non sai cosa bevi.
Quindi l’automa e l’AI sono come un vaso, bisogna prima riempire il tutto di parole, immagini, suoni. A proposito del vaso che contiene, nell’ultima tua mostra La pietra il sol rivegga presso la Reggia di Caserta hai collocato una grande installazione, Locus Solis, 1997 (2022). Un vaso di quasi cinque metri con ai suoi piedi 72 pietre in alabastro disposte a quinconce e illuminate. Il vaso ricorre spesso nel tuo lavoro ma questo ha una particolarità perché è aperto, ha una grande breccia e una “finestra” che lasciano vedere oltre il suo interno.
Il concetto alla base di quest’opera lo ha ricostruito perfettamente Pier Luigi Tazzi in un suo testo, è un vaso che ruota su se stesso e ogni settantadue anni gira di un grado in accordo alla precessione degli equinozi. Il titolo Locus Solis è in assonanza con quello di Locus Solus, l’opera più conosciuta dello scrittore francese Raymond Roussel. Ma è anche un’indicazione di quella Porta-del-Sole di cui parla Ananda K. Coomaraswamy nel suo saggio The “E” at Delphi. Il passaggio da Porta-del-Sole a Locus Solis ricalca il processo tropologico rilevato da Foucault nel libro di Roussel. Il vaso come presenza costante nel mio lavoro compare per la prima volta nella mostra alla Galleria Trisorio di Napoli nel 1995 dove presentai Torso, una scultura concepita a partire dal profilo di un kouros greco. Da questo deriva a sua volta Sonovasoro, 1997, fino ad arrivare all’installazione permanente Settantadue nomi (Italian garden), 2020, realizzata presso la villa medicea dell’Ambrogiana a Montelupo Fiorentino.
In occasione del Millenario della Basilica di San Miniato al Monte (1018- 2018) esposi in anteprima il modello di Locus Solis, che era stato collocato nell’abside della cripta contro una finestra di alabastro al posto di un crocifisso.
Quaranta anni fa, proprio nel mese di settembre, appare nel tuo lavoro la prima mongolfiera, altra figura che ritorna nel tempo e che è un prodromo al volo così come viene descritto in alcune opere, tra cui il grande quadro blu Senza titolo (Albe), 1991.
In Albe è raffigurato il paesaggio offerto da quel primo volo nella brughiera di Laren il 7 settembre 1984 in Olanda. A essere rappresentati all’epoca al suolo e poi su tele e disegni, sono i profili dei volti di un Occidente e di un Oriente rivolti verso il cielo, rispettivamente quello di Isabella d’Este ritratta da Leonardo nel 1500 circa e quello della testa di Shiva datata tra il V e VII Secolo. Dopo quel volo la mongolfiera si è posata nella Sala Ottagonale della Fortezza da Basso di Firenze in L’anello mancante della catena che non c’è, 1989. Recentemente ne sono apparse anche a Torino presso la Galleria Persano e a Capri presso la Certosa di San Giacomo. Infatti, la mongolfiera nasce proprio nell’interstizio tra l’alchimia degli elementi, tra cui c’è l’aria, e la chimica dei gas. È l’esplicitazione di questo importantissimo momento in cui ci solleviamo da terra e nel sollevamento la perdiamo.
Questo rapporto dinamico fra aria e terra, fra volo e stasi, mi torna in mente rispetto anche ad altre opere come Dove porta (Verso), 1992 (2023); Senza titolo (Albe), 1991; Aleph (Keplero inciso), 1978 (2011). La loro disposizione è a terra così come a terra sono stati sempre allestiti i tuoi “tetti” e appunto le mongolfiere.
Il tutto è avvenuto anche per necessità, necessità che ho sempre volentieri assecondato. Ma ricordo anche discussioni severe con Gino de Dominicis ed Emilio Prini a Roma non solo sull’idea di quadro ormai ampiamente superato dalle esperienze, ma anche sul solo appendere alla parete. E il gioco che è stato aperto su tutta un’attitudine mentale che coinvolge spazi e tempi, mi offrì l’occasione di realizzare Baricentro, un’azione proposta a Milano nel 1975 dove appesi al centro delle masse, con una sola puntina, una sagoma irregolare di cartone trovato in strada e dipinto. Era possibile farlo ruotare e quindi farlo divenire un oggetto volante da cui fuggire velocemente. Ma arrivai a dire di più quando più tardi osservando l’autoritratto di Cézanne e il suo occhio, occhio che lui stesso dice preso da un vortice astratto. Dunque, l’affermazione della cecità del pittore, come ebbi a sostenere nel testo Ci si domanda ormai … che proposi a Sarajevo in occasione di Ars Aevi, 2001.
Altra opera che mi ha sempre incuriosito molto per la sua inaccessibilità di partenza è Nel paesaggio di Xvarnah, 2019. Si tratta della riproduzione di sette miniature per un’omonima cartella e le immagini si riferiscono al giardino orientale raccolte nel manoscritto Nezami del XIV secolo. Un testo di cui sappiamo pochissimo.
Quelle miniature secondo Corbin ed altri studiosi trattano i sette momenti del giardino della creazione nella cultura persiana preislamica. È il mondo e la creazione dei mondi espressi dal profeta Zarathustra. Sono visioni che condivisi con l’amico Fulvio Salvadori proprio fino alla realizzazione di una cartella che fu pubblicata in occasione del suo ultimo libro: Scritti sospesi / Visioni estatiche (Lindau, 2020 n.d.c.). Ho voluto esporre il lavoro anche a Caserta e su Tavolo rosso, 1975 (2017) mettere a confronto, oltre i disegni, anche le due lettere che ci siamo scambiati proprio in occasione della produzione di quelle stampe così piene di meraviglia oggettiva e che ruotano intorno a destini e giardini rappresentati in luce piena e senza ombra alcuna. Credo siano molto vicini a quella luce così ambita dallo stesso Vanvitelli nella Reggia di Caserta.
Una luce che spesso nel tuo lavoro diviene, quando non ombra, trasparenza, limpidezza dell’alabastro, segno di un passaggio.
Un passaggio composto da un prezioso mosaico realizzato in alabastro come avviene, ad esempio, nell’opera Dove Porta (Verso), 1992 (2023). Al centro della superficie è posta una parabola ellittica, attraversata lateralmente da una banda rossa. Il motivo geometrico suggerito dagli intarsi rimanda all’Aleph, uno dei soggetti a cui ricorro spesso. Dove porta rivela la sua delicata trasparenza in occasione del dialogo con la luce: una soglia dalla diafana presenza che rende omaggio a Le Porte Regali di Florenskij.
Un percorso che appare chiaro in tutti gli Aleph. Ma che diviene più esplicito in Aleph (Filo oro), 1997 (2022), dove un filo d’oro ripercorre la linea originale che serve da matrice nella composizione di queste strutture che appaiono come luce in madreperla.
Un bianco albeggiare dell’alabastro che avvolge la foglia d’oro distesa sul rosso cinabro dipinto.
Marco Bazzini
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