La mostra dell’artista che faceva accadere le cose. Allan Kaprow al Macro di Roma
A Roma e per la prima volta in Italia un’installazione del pioniere degli happening di New York, ricordando gli anni della sperimentazione con un’opera manifesto
Centinaia di pneumatici disposti in modo casuale da poter lanciare o scalare, smuovere e scavalcare. Così si presenta agli occhi del pubblico Yard (1961), una installazione relazionale dell’artista e teorico americano Allan Kaprow (Atlantic City, 1927 – Encinitas, 2006) nel cortile della Martha Jackson Gallery di New York. Si tratta del manifesto di un’arte nuova, rivoluzionaria, che rompe gli schemi e svia il sistema, di cui il Museo Macro di Roma fa oggi memoria e risemantizza.
L’opera Yard di Allan Kaprow a Roma
L’opera – presentata a Roma per la prima volta – è ora disposta nell’atrio del museo a disposizione di chiunque voglia stabilirvi un contatto. Toccarla è solo una delle infinite possibilità. L’opera non ha spazio, né tempo. Concepita per essere allestita ovunque, Yard si innesta, per volontà del direttore Luca Lo Pinto, ai dj set del Festival Sonata in corso fino al 22 settembre 2024. Fungerà inoltre da cornice alla grande collettiva Post scriptum. Un museo dimenticato a memoria, che inaugurerà ad ottobre, con artisti storicizzati come Agnetti, Altieri, Fabro, Gonzalez-Torres e giovani leve di culto internazionale come Issy Wood.
Chi era Allan Kaprow
Si definiva “Happener”, ossia “colui che fa accadere le cose”. E fu proprio lui ad inventarsi la formula, fondando un modo innovativo di fare arte. Nel 1966 allestì nel suo appartamento a New York una mostra non sequenziale: Assemblage, Enviroments and Happening. In ognuna delle sei stanze accadevano eventi effimeri. Chi accedeva un fiammifero, chi sbucciava un’arancia. Piccoli incantesimi da fruire time-based a partire dall’inizio, dalla fine o anche dal centro della casa. Gli Enviroments di Kaprow sono tangenti, non a caso, con gli anni esaminati da Lucy Lippard nel suo diario-must Six years. The dematerializatione of Art Object from 1966 to 1972. In quel torno di tempo da una parte e dall’altra dell’Atlantico, l’arte contemporanea cominciava a smaterializzare i propri confini estetici, assumendo forme sempre più concettuali, interattive, sociali e sempre meno legate ad uno spazio circoscritto. Il focus era sulle esperienze non registrabili, le idee non scritte, la messa al bando della materia. Il situazionismo, d’altronde, vide la sua genesi poco prima, a partire dagli Anni Cinquanta.
L’opera di Kaprow al Macro
È in questo clima di spensierato impegno che si inseriscono anche memorabili performance italiane come la Cancellazione d’artista di Cesare Tacchi o Dovendo imballare un uomo di Renato Mambor, I muri della Sorbona di Nanni Balestrini del ’68, la celebre mostra del ’69 Live In Your Head: When Attitudes Become Form, dove il titolo è già uno statement. È l’atto a fare l’opera. Come anche nel caso dell’indimenticabile Esposizione in tempo reale n.4 di Franco Vaccari alla Biennale del ’72.
Qui non si trattava delle emotional instagrammable experiences dell’ultimo minuto che troviamo oggi in tante realtà. Ma di un vero e proprio cambiamento del concetto di arte, che tra accadimenti, gesti in real time o processi in feedback, si legavano con ragioni profonde e a filo doppio al tema del tempo. E, a proposito di tempo, proprio al piano meno uno del Macro, nella collettiva ongoing Retrofuturo cominciata nel 2021, fa capolino una formidabile opera video di Roberto Fassone (Savagliano, 1986) che trae da Youtube video random e li associa a performance che hanno fatto la storia. Tra queste un link a Yard: dei bambini corrono, saltellando, come in una corsa a ostacoli, dentro alcune ruote. Era destino che Kaprow approdasse qui, in un gioco a ringcomposition che lo pneumatico, circolare com’è, suggerisce.
Francesca de Paolis
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