Lo specchio sporco dei Settanta
Spesso non ci facciamo caso, ma il cinema italiano degli Anni Settanta ha anticipato quasi tutto della realtà italiana, ruvida e sporca, in cui viviamo immersi. Con registi come Dino Risi e Carlo Lizzani, Francesco Rosi e Marco Bellocchio, fino a Elio Petri e al misconosciuto Damiano Damiani.
Se i Cinquanta e i Sessanta contengono i modelli che generalmente consideriamo (sbagliando, naturalmente) inarrivabili, irraggiungibili, come se fossero stati elaborati da individui che con noi non intrattengono alcun rapporto, e in condizioni produttive favolose; e se gli Ottanta rappresentano, con poche ma significative eccezioni, il momento in cui viene definitivamente sigillata quella bolla spazio-temporale, nostalgica e paralizzante, che solo adesso si mostra crepata (un immaginario culturale estremamente pervasivo, generalmente identificato con Drive In e i “cinepanettoni”); i Settanta italiani sono percorsi da tutte le tensioni, positive e negative, che agitano e percuotono la società intera, e che – come sempre avviene – si manifestano in maniera particolarmente efficace nella produzione culturale.
Il cinema, in questo senso, appare il territorio privilegiato, in cui da un lato si prosegue coerentemente il lungo e fecondo percorso iniziato con il Neorealismo (e i registi, in molti casi, sono gli stessi: Rosi e Lizzani su tutti); dall’altro, la commedia italiana, che nel Neorealismo affondava le sue origini (Vita da cani di Steno e Monicelli è del 1950) e che, a partire dagli Anni Cinquanta, aveva costruito e riconfigurato l’identità nazionale sulle macerie dell’epoca precedente, accompagnando la critica sociale dei vizi collettivi alla loro esaltazione, rinuncia consapevolmente a una parte della sua brillantezza scanzonata, per accedere a territori molto maturi e amari.
Così, il decennio si inaugura, nel 1971, con due capolavori molto diversi tra loro, ma che considerati insieme compongono un impressionante – e sconsolante – dittico sul cuore nero, fetido dell’Italia: In nome del popolo italiano di Dino Risi e Roma bene di Carlo Lizzani. Nel primo, il giudice istruttore Mariano Bonifazi (Ugo Tognazzi) si oppone all’imprenditore corrotto Renzo Santenocito (Vittorio Gassman), la sintesi della natura becera e volgare di un intero popolo: nella scena finale, durante i festeggiamenti per la vittoria della nazionale sull’Inghilterra, il giudice riconosce infatti il suo nemico nel volto e nell’atteggiamento di ogni tifoso. Ed è sempre attraverso lo sguardo di un servitore dello Stato, il colto e zelante commissario Quintilio Tartamella (Nino Manfredi) che in Roma bene Lizzani indaga la malattia di un’intera nazione attraverso la decomposizione della sua Capitale, e della fauna umana che ne occupa le posizioni più privilegiate (un ritratto impietoso di squallore e degrado civile che proseguirà con Storie di vita e malavita, 1975 e San Babila ore 20: un delitto inutile, 1976).
Ma è forse il film d’inchiesta – in grado di fondere abilmente impegno, indagine sociologica e azione – che cattura il carattere più vero e profondo del nostro cinema Anni Settanta (originando anche il filone più serio dei poliziotteschi). Francesco Rosi – che aveva praticamente fondato il genere, con Salvatore Giuliano (1962) e Le mani sulla città (1963) – approda nel 1972 a Il caso Mattei, in cui la vicenda già storica viene ricostruita attraverso soluzioni originali di docufiction e persino autofiction, mettendo a punto una struttura narrativa fatta di scarti, digressioni e innesti: diviene così il cratere fondamentale che risucchia l’intera storia recente del Paese. Nello stesso anno e con lo stesso protagonista (Gian Maria Volonté), Marco Bellocchio compone con Sbatti il mostro in prima pagina un agghiacciante saggio sulla manipolazione e sulla distorsione dell’informazione a fini politici, che andrebbe riguardato oggi con tremore.
Ma l’autore che forse più di tutti esplora le zone indicibili dell’Italia repubblicana, costruendo – con film come Confessione di un commissario di polizia al procuratore della repubblica (1971), L’istruttoria è chiusa: dimentichi (1971), Girolimoni, il mostro di Roma (1972), Perché si uccide un magistrato (1976) – un cinema di denuncia potente e terribile è il sottovalutato Damiano Damiani. Senza dimenticare, naturalmente, il Petri più visionario e profetico – da Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) e La classe operaia va in paradiso (1971) a La proprietà non è più un furto (1973), e soprattutto a Todo modo (1976).
Christian Caliandro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #9
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