Le arti e il corpo sofferente. Geografia del dolore nell’arte e nella cultura
Qual è il compito delle arti e dell'architettura in generale se non quello di ricostruire l'esperienza di un mondo interiore di cui non siamo semplici spettatori, ma di cui facciamo parte inseparabilmente?
The body keeps the score, (in italiano “il corpo serba memoria”) è il titolo di un bel libro dello psichiatra di origine olandese Bessel van der Kolk che nel 1978 cominciò a studiare l’impatto della guerra sui soldati americani in Vietnam, il cui disagio non corrispondeva alle definizioni classiche di malattia mentale dell’epoca.
Il tema del dolore nell’arte
I disturbi da stress post-traumatico possono essere causati da eventi violenti ricorrenti come la violenza domestica, torture, schiavitù, guerre, migrazioni e da danni di lunga durata come depressione o dipendenze. Elaine Scarry, docente di Estetica all’Università di Harvard nel suo testo The Body in Pain (il corpo sofferente) ha raccontato: “Quando ho iniziato a scrivere non pensavo certo che sarei finita a parlare della creazione e della costruzione del mondo. Per coloro che sono afflitti da un’insopportabile sofferenza del corpo creare è pressoché impossibile, perché quella sofferenza distrugge il mondo. Sono arrivata alla conclusione che in realtà il compito della bellezza è alleviare il dolore. Bellezza e dolore sono una la controparte dell’altro”.
Il dolore, secondo Scarry, fa parte di una geografia invisibile, in quanto non si manifesta direttamente, è inesprimibile, distante, come quelle misteriose grida intergalattiche di cui parlano i fisici. Il nostro dolore è qualcosa di certo, quello degli altri no. Il dolore acuto resiste al linguaggio e obbliga la vittima a una regressione a livello di suoni e grida inarticolati. L’effetto psicologico prodotto dalla violenza verbale e dai metodi di interrogatorio distrugge la capacità di espressione dell’altro, allo scopo non già di estorcere informazioni, bensì di decostruire la voce del prigioniero/vittima. Delegittimazione e umiliazione fanno parte del processo di annientamento.
L’epidemia di AIDS, l’arte e la cultura
Non è il dolore (di per sé invisibile) ma il regime ad essere reale. Il regime cancella tutto il resto e rende invisibile la sofferenza umana.
Narrare il dolore, riconoscerne l’esistenza e dargli visibilità e dignità sono dunque la condizione imprescindibile per alleviarlo. Alla fine degli Anni Ottanta del secolo scorso, gli anni più drammatici dell’epidemia dell’AIDS quando la malattia mieteva centinaia di migliaia di vittime soltanto negli Stati Uniti, Cleve Jones, attivista dei diritti gay di San Francisco ha ideato la AIDS Memorial Quilt, un progetto terapeutico di lutto collettivo e di auto guarigione. Ecco cosa scrive anni dopo nel suo libro When we rise. (2016) “Trapunta: quella semplice parola esercitava su di me un forte richiamo. Mi faceva pensare alle mie nonne e alle mie bisnonne. Evocava immagini di donne pioniere che si accampavano accanto ai Conestoga wagon. O di schiavi africani del Sud, che facevano incetta di pezzi di stoffa provenienti dalla casa del padrone. Sapeva di indumenti dismessi, avanzi di stoffa con trame e colori diversi, cuciti insieme per creare qualcosa di bello, di utile e di caldo. Dei piumini che confortano. Mi immaginavo famiglie che condividevano le loro storie mentre tagliavano e cucivano la stoffa. Avrebbe potuto diventare una terapia per una comunità sempre più paralizzata dal dolore, dalla rabbia e dall’impotenza. Avrebbe potuto diventare uno strumento per i media, per far capire loro che c’erano persone dietro le statistiche. Avrebbe potuto diventare un’arma da usare contro il governo – per farlo vergognare, spiattellandogli sotto il naso la prova tangibile del suo totale fallimento“.
L’AIDS Memorial Quilt
La bellezza terapeutica dell’AIDS Memorial Quilt esposta per la prima volta a Washington, lungo il viale del National Mall nel 1987 è stata un evento collettivo indimenticabile. In origine formata da 1.920 pannelli di stoffa realizzati da amici e parenti delle vittime, oggi è arrivata ad averne oltre 50mila. Spesso le arti e l’architettura posseggono una sorta di saggezza tacita del corpo, legata ai significati profondi di una “conoscenza senza parole” come direbbe il neuroscienziato e medico Antonio Damasio. Nel suo intervento per la Fondazione Prada, Human Brains Discussions (2020), Damasio ha parlato dell’immediatezza delle informazioni che corrono tra pelle, cuore, viscere e intestino e che si estendono a tutto il nostro corpo. Secondo Damasio, l’intero corpo elabora e comprende le emozioni prima che vengano elaborate nel cervello, grazie al sistema nervoso periferico. La manifestazione più semplice di tale conoscenza senza parole è la sensazione di sapere. Come scrive in The Feeling of what happens, non è un caso se il Mondo Antico si riferiva alla mente con il termine psiche che comprendeva anche il respiro e il sangue. Il fluire della vita passa attraverso il corpo.
Il ruolo dell’arte e dell’architettura
Qual è dunque il compito delle arti e dell’architettura in generale se non quello di ricostruire l’esperienza di un mondo interiore di cui non siamo semplici spettatori, ma di cui facciamo parte inseparabilmente? Secondo l’architetto finlandese Juhani Pallaasma, l’architettura inquadra e dà significato allo spazio indifferenziato. Spesso l’architettura delle culture tradizionali è più legata alla saggezza tacita del corpo, meno dominata visivamente e concettualmente dall’occhio e da una visione filtrata dalla tecnologia.Lo psicologo cognitivo Stephen Kosslyn sostiene che l’immaginazione visiva ha una componente non soltanto psicologica ma anche fisiologica (Image and Mind). La scoperta più interessante di Kosslyn è che la nostra percezione visiva dipende dalla nostra immaginazione visiva e non viceversa, dato che ciò che vediamo è un mix fra ciò che l’occhio può vedere (attraverso la retina) e ciò che il nostro occhio interiore percepisce, o meglio le immagini che il nostro cervello ha memorizzato. Queste considerazioni non possono non farci riflettere sull’importanza delle immagini mentali per il processo di formazione del pensiero, per la soluzione dei problemi. Esperienza, apprendimento, immaginazione e comprensione sono imprescindibili per la nostra capacità di reagire e adattarci in contesti difficili.
L’esperienza della reciprocità nell’arte
In molti dei libri avvincenti che ha dedicato ai suoi pazienti, il neurologo e scrittore Oliver Sacks racconta ripetutamente del potenziale delle persone affette da gravi disturbi neurologici, che riescono ad attingere alle competenze e alle risorse culturali che si sono costruiti nella vita sviluppando strategie e rinforzando la memoria. Lilian, musicista e pianista di talento, un giorno, nel suonare il concerto per pianoforte e orchestra n. 21 di Mozart, scopre che le note dello spartito si accavallano davanti ai suoi occhi. Sacks osserva con ammirazione come la musica abbia aiutato Lilian non soltanto ad affrontare la malattia, ma addirittura a superarla. La cosa diventava evidente, come scrive Sacks, “quando si sedeva al pianoforte, strumento che richiede il massimo livello di interazione fra sensi e muscoli, corpo e mente, memoria e immaginazione, intelletto ed emozione, insomma il coinvolgimento completo della personalità“. Facendo sempre più affidamento sulla propria memoria, Lilian suonava per Sacks ogni volta che andava a visitarla. Quest’esperienza trasmetteva gioia e trepidazione sia al medico che al paziente e si trasformava in una sorta di dono reciproco.
Oggi molti artisti non creano più opere d’arte “statiche”, ma preferiscono “pratiche creative” che possono rimodellare la nostra vita emotiva, ricostruire metaforicamente all’interno di una comunità o fra individui e società, relazioni che si sono spezzate, azioni o gesti di ricucitura oltre le parole, la cui durezza diventa, a volte, una barriera insormontabile.
Anna Detheridge
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