Transparently incoherent: le contraddizioni dell’arte alla Glass Week di Venezia 

Due artisti riflettono sulle contraddizioni insite nella pratica artistica. Tra desiderio di un'arte che possa essere trasformativa e le strutture economiche e istituzionali che la sostengono, limitandone però il potenziale d’impatto

Le contraddizioni nell’arte non sono mai mancate e forse non mancheranno mai. Durante la Glass Week a Venezia, svoltasi dal 14 al 22 settembre 2024, sono emerse in modo trasparente.  Due artisti, in particolar modo, ne sono stato esempio.  Claudia Virginia Vitari, artista torinese che vive a Berlino, lavora sul rapporto, spesso lo scontro, tra persone a rischio di esclusione e le “istituzioni totali”, luoghi dove gruppi di persone vivono per un significativo periodo di tempo, in spazi che obbligano i residenti a seguire le regole imposte dall’alto. 

Il progetto di Claudia Virginia Vitari 

Il progetto “Percorsogalera” (2008-2009) è stato realizzato insieme ai detenuti della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno di Torino, mentre “Le Città Invisibili” (2012-2013) ha preso forma a Barcellona in collaborazione con l’Associazione Culturale Radio Nikosia, una radio spagnola gestita da persone a cui sono state diagnosticate malattie mentali. Dal 2014, con il progetto “Identità Interstiziali”, si dedica ad indagare la questione della migrazione in Europa, seguendo proteste o intervistando persone richiedenti asilo all’interno dei centri di accoglienza berlinesi. 
I miei progetti si basano sullo studio delle narrative socialmente imposte di inclusione e esclusione e sul concetto di istituzioni totali, termine coniato da Erving Goffman. Esploro mediante la ricerca artistica il confronto tra storie individuali di persone a rischio di esclusione e l’organizzazione istituzionale stessa, che riflette e rappresenta la società nel suo insieme”, dice Claudia Virginia Vitari, spiegando che le sue contraddizioni principali sono tre. 
In primis il suo rapporto con il mondo dell’arte. Vitari si chiede se sia coerente sviluppare un discorso critico sulla normalizzazione dell’individuo tipica del sistema produttivo capitalista all’interno del sistema dell’arte che, di fatto, è dominato dalle stesse leggi del capitale. Insomma: il mercato dell’arte e le dinamiche di fruizione dell’arte possono essere coerenti con il senso del suo lavoro? 

Claudia Vitari, PERCORSO GALERA, 2009, Museo del Carcere Le Nuove. Photo Janine Mapurunga
Claudia Vitari, PERCORSO GALERA, 2009, Museo del Carcere Le Nuove. Photo Janine Mapurunga

Le contraddizioni nell’opera di Vitari 

Allo stesso tempo, Vitari si chiede se il suo modo di concepire l’arte sia compatibile con la vita e il trascorso delle persone da cui trae ispirazione, delle persone di cui racconta le storie. “La mia convinzione è sempre stata quella che l’arte possa essere una forma di attivismo, contrastando i messaggi visivi commerciali che ci bombardano e ci condizionano in modo sottile. Tuttavia, mi interrogo sulla reale efficacia di questo approccio nel contesto attuale: l’arte può ancora avere un impatto rivoluzionario? Le persone di cui parlo e con le quali mi relaziono per la realizzazione dei miei progetti, spesso per anni, hanno necessariamente problemi diversi rispetto a quello di andare a vedere mostre e biennali ed essere aggiornati sull’arte contemporanea”, ha spiegato, aggiungendo che si sente spesso in difetto nei confronti delle persone che le raccontano le loro storie. A Vitari sembra di tradire la loro fiducia.  Questo spesso senza riuscire a spronare i fruitori usuali dell’arte (contemporanea e non) a riflettere, a raggiungere la consapevolezza, condizione necessaria per ogni cambiamento, interno ed esterno. Ma c’è anche un terzo aspetto. Ha senso criticare il mondo che le permette di lavorare? I progetti di Vitari, spesso complessi e installativi, richiedono finanziamenti, spesso pubblici, sia per la ricerca sui materiali che per la realizzazione pratica. I tempi di studio e i temi trattati necessitano, dice Vitari, ulteriore supporto. “Dal momento che queste opere sono meno commerciali rispetto ad altre forme d’arte, la necessità di sovvenzioni pubbliche è evidente. Mi domando, però se sia giusto chiedere fondi statali per criticare lo stesso Stato. La mia risposta in questo caso è sì: credo che la critica più efficace debba provenire dall’interno del sistema”, ha spiegato l’artista ad Artribune.  

L’opera d’arte come fattore di sviluppo sociale 

Se gli interrogativi rimangono centrali nel lavoro di Vitari, però, è più complesso trovare un modo per diminuire queste contraddizioni.  “Cambiare il modo di mostrare il mio lavoro è complesso perché richiede un equilibrio delicato tra diversi contesti. Ho esposto il mio lavoro in spazi alternativi. Ad esempio, ho esposto in carcere, dove ho avuto l’opportunità di presentarlo assieme ai detenuti stessi con cui ho collaborato, così come in circoli ARCI o centri sociali. Tuttavia, se si vuole lavorare professionalmente nel mondo dell’arte, è inevitabile presentarsi anche negli spazi istituzionali”. Queste contraddizioni la portano anche a chiedersi se il suo lavoro artistico abbia senso. A volte sente per esempio l’esigenza di limitarsi alla mera attività sociale e creativa, lasciando perdere l’arte come mestiere. 

La Biennale di Venezia e le contraddizioni dell’arte 

Non bisogna andare troppo indietro con il tempo, non bisogna andare troppo lontano, per confermare quanto dice Vitari. Sebbene i temi scelti per la curatela della Biennale siano la migrazione, le conseguenze del colonialismo, le guerre, la geopolitica e i diritti delle minoranze, le opere che vengono esposte o gli eventi stessi sono, non di rado, sponsorizzati da grandi aziende o enti che operano all’interno delle logiche di una élite finanziaria e secondo le regole del capitale. Simili le possibili considerazioni per gli ultimi appuntamenti di documenta, ultimamente incentrati sui cambiamenti climatici. 

Credits Dylan Katz
Credits Dylan Katz

Dylan Katz: lavoro in vetro sui cambiamenti climatici 

Questa incoerenza tra produzione (quasi ogni forma di produzione comporta emissioni, almeno ora, date le tecnologie dominanti) emerge ancora di più per gli artisti che lavorano il vetro, le cui produzioni sono ad alta intensità energetica e quindi contribuiscono ad aumentare le emissioni in modo non irrilevante. E ritorniamo quindi alla Glass Week. Dylan Katz (USA, 1982) è uno degli artisti che parla di cambiamenti climatici. Il progetto ha ricevuto giovedì sera la Menzione Speciale della Giuria del Premio Fondazione di Venezia per The Venice Glass Week. L’artista americano, che lavora con la compagna, ha iniziato ad affrontare la tematica solo di recente. Vive in Finlandia e cerca di emulare con le sue opere il ghiaccio, gli iceberg, il cui scioglimento è la rappresentazione più lampante dei fenomeni meteorologici estremi che abbiamo iniziato ad osservare negli ultimi anni.  Ma, prima di parlare di cambiamenti climatici, Katz si chiede se gli acquirenti siano le persone che possono cambiare le cose. Un po’ come Vitari, insomma. “Una delle grandi incoerenze con cui mi sono confrontato è la necessità di commercializzare e vendere il lavoro a persone benestanti, i cui stili di vita sono così sproporzionatamente responsabili della situazione attuale. In futuro mi piacerebbe aumentare le dimensioni e la scala delle mie opere, ma questa crescita farebbe lievitare sia i prezzi che il consumo di energia, oltre a comportare più viaggi, più logistica e il trasporto di opere più pesanti, tutte attività che consumano molta energia, rendendole sempre più parte del problema”, ha detto Katz a Artribune. Katz aggiunge che, man mano che l’artista continua a crescere, “il messaggio e la passione iniziali si perdono lungo la strada”. Per questo si chiede anche se la funzione decorativa del vetro, senza una consapevolezza delle contraddizioni, sia un problema. Katz però sostiene che parlarne sia già un modo di affrontare i cambiamenti climatici, coinvolgendo il pubblico nelle sfide che dobbiamo affrontare come società. “Troppi artisti del vetro continuano a realizzare lavori puramente decorativi, affidandosi alla bellezza del materiale per dargli valore. I problemi esistono, che se ne parli o meno. Non è forse meglio parlarne finché abbiamo ancora qualche speranza?”.

Climate change e arte del vetro 

Alla domanda sull’eventuale incoerenza tra il suo lavoro e la tematica rappresentata dal suo lavoro, Katz riporta di avere una sua coerenza.  “È una grande domanda, a cui penso da molto tempo. Come posso conciliare l’uso del vetro come mezzo artistico per parlare del problema del cambiamento climatico, quando il processo stesso contribuisce al problema? In definitiva, è più un’apparenza di incoerenza che una vera e propria incoerenza. Il mio studio è molto minimalista, fondiamo solo 25 kg di vetro alla volta e facciamo funzionare la fornace solo per circa una settimana alla volta per realizzare i pezzi nel modo più efficiente possibile, con un minimo spreco di energia. In termini di consumo energetico, lo studio consuma all’incirca la stessa quantità di energia all’ora di una piccola automobile. Ho fatto altri cambiamenti nella mia vita personale per cercare di compensare questa situazione: non possiedo un’auto e mi muovo nella mia vita quotidiana con i mezzi pubblici o in bicicletta. Onestamente mi sento più ipocrita riguardo alla mia dieta di consumatore di carne che al mio lavoro di produttore di vetro”.  
Allo stesso tempo, alla domanda se non sia interessato a soluzioni tecnologiche alternative, Katz riferisce che, al momento, non sta sperimentando in questo senso.

Credits Dylan Katz
Credits Dylan Katz

L’opera di Dylan Katz: strategie di lavoro 

L’obiettivo di Katz non è quello di trovare una fonte di energia più pulita o di sviluppare soluzioni tecnologiche a un problema globale, ma piuttosto di cercare di riformulare la conversazione.  “Credo che uno dei maggiori problemi nell’affrontare la crisi climatica sia che il modo in cui ne parliamo è incredibilmente brutto e senza speranza, il che fa sì che le persone vogliano evitare del tutto di impegnarsi. Il mio messaggio riguarda l’amore e la bellezza, utilizzando il potere dell’arte e la bellezza intrinseca del vetro per creare qualcosa di così incredibilmente bello che si desidera guardarlo per ore, iniziando così a pensare più profondamente alle questioni più grandi che il mio lavoro implica”. 
In sintesi, queste contraddizioni evidenziano la tensione esistente tra il desiderio di un’arte che possa essere trasformativa e le strutture economiche e istituzionali che la sostengono, limitandone però il potenziale d’impatto. L’arte contemporanea sembra spesso trovarsi su questo confine tra coerenza e incoerenza, scontrarsi e incontrarsi in questa divergenza tra messaggio e pratica artistica, giocare tra critica e compromesso. Ma forse questo è una riflessione valida per tutti noi. 

Sergio Matalucci 

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Sergio Matalucci

Sergio Matalucci

Sergio Matalucci (Milano, 1982) è giornalista e scrittore. Ha collezionato lauree in econometria, comunicazione e giornalismo probabilmente solo per viaggiare in Europa. Politica, geopolitica e relazioni internazionali sono il suo pane quotidiano; testi critici per artisti e un libro in…

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