I 20 anni della Fondazione Pastificio Cerere a Roma. Il mecenatismo di Flavio Misciattelli in un’intervista

L’eredità della Scuola di San Lorenzo, la promozione dell’arte emergente, la qualità della programmazione, la riattivazione di spazi storici l’importanza di lavorare sul territorio. Sono molteplici gli elementi che confluiscono negli ultimi 20 anni dell’ex stabilimento industriale del quartiere San Lorenzo, che ora inaugura nuovi spazi e progetti

Saranno i nuovi spazi espositivi che la Fondazione Pastificio Cerere si è regalata per i suoi primi vent’anni ad accogliere il pubblico della mostra Angels. Cinquant’anni di storie del Pastificio Cererea partire dal prossimo 2 ottobre (e fino al 30 novembre). Un’occasione per raccontare la fucina artistica proliferata negli Anni Settanta attorno all’esperienza di un gruppo di artisti che si insediarono negli spazi dismessi del Pastificio Cerere, che dal 1905 al 1960 fornì farina e pasta a Roma, nel cuore del quartiere operaio di San Lorenzo. E per celebrare al contempo l’attività della Fondazione costituitasi nel 2004 per iniziativa di Flavio Misciattelli come officina del contemporaneo votata alla libertà di espressione e alla sperimentazione di linguaggi artistici (sotto la direzione artistica di Marcello Smarrelli). Con il presidente della Fondazione, nel 2019 fautore anche della Fondazione Chigi Zondadari nata intorno al palazzo di famiglia a Siena, tracciamo un bilancio di questi 20 anni. Approfittando per mettere a fuoco un modello esemplare di riattivazione degli spazi storici all’insegna dell’arte contemporanea che dopo l’esperienza romana sembra aver trovato terreno fertile anche a Siena. 

Flavio Misciattelli sui 20 anni del Pastificio Cerere

Quando 20 anni fa la Fondazione è nata, che obiettivi si proponeva? Quali traguardi sono stati raggiunti?
Il Pastificio Cerere, oltre alla valenza storica dell’edificio, è un potente contenitore di esperienze artistiche che sono maturate a partire dagli Anni Settanta negli spazi dismessi della fabbrica attiva fino al 1960. Nella mia famiglia fu Felicina Ceci, abituata a frequentare i circoli artistici e molto amica di Giacomo Balla, a favorire l’insediamento dei primi artisti nel palazzo. Ne è derivato un sistema di atelier che si è protratto in forma spontanea. Quando alla fine degli Anni Novanta sono arrivato al Pastificio per abitarvi ho respirato l’eredità di quella fucina, ho conosciuto gli artisti che ancora vivevano e lavoravano nell’edificio. E ho sentito l’esigenza di favorire l’apertura verso l’esterno di un luogo così carico di storia e significati. Con la Fondazione si è puntato a “burocratizzare” l’esperienza pregressa, senza minarne la spontaneità e il dinamismo. È iniziato così un lavoro meticoloso di collegamento degli spazi, nel rispetto di chi li viveva. Accompagnato da un grande sforzo organizzativo e progettuale.

20 anni sono un tempo più che sufficiente per stilare un bilancio. Cos’ha portato il Pastificio a Roma?
Prima che scegliessi la via della Fondazione, molti mi dicevano di aprire una galleria. Alla fine degli Anni Novanta il mercato dell’arte era florido, scegliere un approccio commerciale sembrava la strada più naturale. Ma ho preferito assecondare l’identità del Pastificio, dove oggi coesistono studi d’artista, atelier di moda, studi di grafica e comunicazione, l’accademia di arti visive RUFA. E se l’intenzione originale prevedeva di centrare il lavoro sulla realizzazione di mostre, presto è cresciuta l’interazione con e per il quartiere e la città. Grazie al programma di residenze 6Artista, istituito nel 2009, abbiamo risposto all’esigenza di creare uno spazio mancante per gli emergenti italiani; dall’altro lato, l’organizzazione di laboratori e attività partecipate ci hanno portato a diventare un hub culturale di confronto per addetti ai lavori e non.

Il nuovo spazio espositivo del Pastificio Cerere. Courtesy Fondazione Pastificio Cerere. Photo Alessandro Penso
Il nuovo spazio espositivo del Pastificio Cerere. Courtesy Fondazione Pastificio Cerere. Photo Alessandro Penso

Il Pastificio Cerere, San Lorenzo, Roma e la promozione dell’arte contemporanea

Com’è cambiato lo scenario di quartiere da allora? 
San Lorenzo è un quartiere che porta con sé una storia stratificata e complessa, negli ultimi decenni ha vissuto di cicli, e ha conosciuto l’inevitabile fenomeno della gentrificazione, pur preservando sempre potenzialità creative innate. Una cesura recente è da individuare nel delitto della giovane Desirée Mariottini, nel 2018, che ha puntato i riflettori sul degrado a cui ci si stava abbandonando, tra noncuranza, spaccio e criminalità. E invece oggi assistiamo alla congiuntura di una serie di progetti ed esperienze che mettono in luce le qualità di un quartiere che vive della sua dimensione universitaria come della sua anima artistica (censita e messa in rete dal distretto Salad, ndr). Ora abbiamo la Soho House e The Social Hub, e sono molto felice di registrare l’arrivo di una galleria importante come Monitor che accresce ulteriormente gli spazi d’arte.

E per quel che riguarda la città? Da oltre 10 anni, con il direttore artistico Marcello Smarrelli, l’attività del Pastificio mette al centro progetti di arte pubblica e partecipata. Più in generale si è sempre lavorato con l’idea di fare politica culturale sul e per il territorio. Ci sono stati passaggi difficili in questo processo? Con che tessuto vi confrontate?
Mi piace citare un pensiero condiviso con me da Maurizio Savini anni fa: “Se fai galleggiare un bastoncino sulle acque del Tevere” mi disse “dopo qualche tempo lo ritroverai sull’altra sponda, portato dalla corrente, senza capire bene come ci è arrivato. Però è successo”. A Roma le cose funzionano così, succedono, nonostante gli ostacoli e le resistenze. 

Qual è stata la formula vincente del Pastificio per diventare centro di produzione e divulgazione artistica riconosciuto in ambito italiano e internazionale?
Uno dei punti di forza è stato quello di attivarsi per reperire risorse attraverso bandi pubblici, una volta esauritosi l’entusiasmo delle sponsorizzazioni. Con Claudia Cavalieri abbiamo creato un team dedicato allo scopo, e nel frattempo partecipato attivamente, come parte del Comitato Fondazioni Arte Contemporanea, all’elaborazione di uno strumento che oggi si rivela essenziale come l’Italian Council, sul modello di esperienze internazionali.

I nuovi spazi espositivi del Pastificio Cerere

Ora celebrate il traguardo dei 20 anni con nuovi spazi espositivi e un nuovo percorso per la collezione permanente. Da dove nasce l’esigenza e cosa dobbiamo aspettarci?
Siamo pronti a dotare il progetto di uno spazio a vocazione museale. Il primo nucleo della raccolta è costituito dalle opere di Piero Pizzi Cannella, Agostino Iacurci, Riccardo Previdi e Francesco Simeti, ma si arricchirà nel tempo con opere site-specific create in dialogo con i reperti di archeologia industriale della fabbrica dismessa. In questo ripensamento e ampliamento degli ambienti espositivi, lo Spazio Molini, riattivato nel 2019, viene adibito all’allestimento delle installazioni permanenti.

E poi ci sono i nuovi ambienti progettati dallo studio STARTT…
Con gli STARTT collaboriamo da più di 13 anni, per noi hanno realizzato gli allestimenti più complessi e inoltre hanno già lavorato a Pesaro alla Fondazione Casoli con Marcello Smarrelli. È stato naturale affidarci al loro sguardo per progettare il nuovo spazio, che recupera alcune preesistenze storiche, ma si caratterizza soprattutto per un tunnel che è l’elemento catalizzante nella suddivisione degli ambienti, da ora a disposizione per la realizzazione delle mostre della Fondazione.

A partire da Angels, una collettiva che si amplia a comprendere Cinquant’anni di storie del Pastificio Cerere, riunendo documenti d’archivio, pubblicazioni, opere d’arte, di cui alcune inedite e site-specific.
Sì, ci sono dentro innanzitutto le vicende degli artisti della Scuola di San Lorenzo, e non a caso abbiamo mutuato il titolo dalla serie fotografica Angels, che Francesca Woodman scattò all’interno del Pastificio nel 1977. Ma si ripercorrono anche le storie di critici e curatori che hanno frequentato il Palazzo dagli anni Settanta in poi, di galleristi, sostenitori e mecenati. Così raccontiamo la fucina che è stata ed è il Pastificio, facendo al contempo un bilancio sulle attività della Fondazione: emblematica in tal senso è la tavola cronologica realizzata per l’occasione da Giuseppe Stampone, una sorta di albero genealogico artistico del Pastificio, che al termine della mostra resterà nel cortile. Altra particolarità è l’aver scelto di ampliare lo sguardo agli artisti che il Pastificio l’hanno frequentato pur non avendo qui un proprio studio, mettendo in luce l’importanza delle relazioni e delle connessioni generate da uno spazio vivo. Concettualmente con Angels ci riallacciamo alla mostra inaugurale della Fondazione, Residenti (2005), nel celebrare il valore della comunità artistica.

Intanto siete già al lavoro su un ulteriore spazio che ci aiuta a tracciare il futuro prossimo del Pastificio.
Sì, al primo piano abbiamo ricavato una serie di ambienti per la realizzazione di un piccolo appartamento/atelier, che in futuro ci darà modo di riattivare il programma di residenze, seppur in formato ridotto. Accanto alla volontà di fare rete in città – penso alla recente attivazione di collaborazioni con le Accademie straniere di Roma – e al consolidamento della posizione conquistata sulla scena internazionale, per noi è essenziale sostenere l’arte emergente. Le residenze del passato hanno garantito importanti possibilità ai “nostri” artisti. Lo stesso Wang Yuxiang, protagonista della mostra che inauguriamo accanto a Angels, ha trovato in passato nel Pastificio un luogo di ospitalità e formazione che convalida l’impegno della Fondazione in tal senso. E vogliamo potenziarne la centralità.

Arte e palazzi. L’esperienza di Palazzo Chigi Zondadari a Siena

Intanto a Siena si consolida il progetto della Casa Museo di Palazzo Chigi Zondadari. Quanto ha contato l’esperienza romana nella definizione di un programma di attività incentrate sull’arte contemporanea in un contesto storico?
Il Pastificio mi ha permesso di perfezionare un modello che definirei “arte e palazzi”, che prevede la valorizzazione di immobili storici attraverso l’arte contemporanea. A Siena il progetto per restituire alla città il palazzo di famiglia in Piazza del Campo l’ho coltivato per oltre 15 anni, prima di arrivare a concretizzarlo nel 2021. Nel caso specifico c’era l’intenzione di rivelare un contesto architettonico e un impianto decorativo preservato dal fatto che l’edificio non è stato abitato con continuità. Penso soprattutto ai corami spagnoli del piano nobile, rimasti intatti per l’assenza di riscaldamento. 

E come è stato concepito l’incontro con il contemporaneo in un contesto tanto prezioso quanto fragile?
All’inizio abbiamo pensato a sfruttarne il cortile, con il progetto Cortemporanea, per trasformarlo in un luogo espositivo dedicato a lavori site specific di artisti italiani e internazionali chiamati a interpretare liberamente lo spazio. In nuce c’era già l’idea che l’iniziativa potesse estendersi ad altri palazzi storici della città, così da offrire un itinerario inedito alla scoperta del patrimonio senese, oltre le rotte turistiche più inflazionate. Nella pratica gli interventi degli artisti coinvolti finora, Pietro Ruffo per primo con i suoi mappamondi, poi Paolo Tamburella con i tralci che avviluppavano i saloni, hanno finito per “conquistare” anche gli interni, generando una sintesi molto efficace.

Questo è vero anche per la mostra in corso, dell’artista ucraina Zhanna Kadyrova, resa possibile dalla collaborazione con Galleria Continua…
Per la prima volta collaboro con Galleria Continua, e il sodalizio mi rende orgoglioso e soddisfatto. Si prosegue, dunque, a privilegiare la qualità dei progetti e l’identità degli artisti chiamati a relazionarsi con gli spazi storici. Con Kadyrova abbiamo portato a Siena un’artista internazionale, tuttora residente a Kiev, che per la facciata del cortile ha concepito l’installazione The War of Perspectives, annerendo alcune finestre del piano nobile come se fossero state colpite dal fuoco o da un’esplosione. La mostra prosegue nelle sale e ci proietta nella situazione drammatica vissuta dall’Ucraina, però sempre seguendo il filo conduttore della bellezza – in questo caso una bellezza struggente che invita a fermarsi e riflettere sul senso della vita – che finora ha guidato la programmazione di Palazzo Chigi Zondadari.

Siena sembra finalmente pronta per riproporsi sulla scena dell’arte contemporanea nazionale e internazionale da protagonista. Lo slancio di Palazzo Chigi Zondadari ha sicuramente contribuito a muovere la scena culturale cittadina e ora raccoglie i frutti di una scelta lungimirante. Che futuro auspica e immagina per la città sotto questo profilo?
Ora sembra più concreta la possibilità che Siena torni a essere protagonista sulla scena dell’arte contemporanea com’è stato negli Anni Novanta. Penso al rilancio di Palazzo delle Papesse, al nuovo corso di Santa Maria della Scala, ma anche al lavoro che si prospetta per il Palazzo Pubblico. Parlerei di un nuovo Rinascimento, che paradossalmente è stato reso possibile dalla caduta del Monte dei Paschi, anche se ci sono voluti anni di elaborazione per scardinare certe rigide dinamiche. Dal canto nostro, c’è la volontà di fare rete. A Palazzo Chigi Zondadari siamo solo al 30% della realizzazione del progetto: cresceremo con nuove iniziative, coinvolgendo anche l’azienda vinicola di famiglia appena fuori città, con un progetto che unisce l’arte contemporanea e l’enologia oltre le strade già esplorate.

Livia Montagnoli

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