“La poesia italiana sta benissimo”. Intervista a Stefano Dal Bianco

Si intitola “Paradiso” la nuova raccolta di poesie di Stefano Dal Bianco, finalista del Premio Strega Poesia 2024. L’abbiamo intervistato per conoscere meglio la sua poetica e le sue opere

Qualora i doveri o gli affetti della vita
anche per pochi giorni ti chiamassero altrove
devi sapere che al ritorno
assieme all’abitudine
sarà andato perso il contatto,
sarà muto il silenzio dell’erba
e diverso il profumo delle siepi.
Il fatto è che la frequentazione dell’altrove
porta con sé necessità, e assorda.
Recuperare il contatto è affrancarsi dall’umano

perché non c’è niente di umano nell’umanità
o di tuo nel rumore del mondo che non sa.

***

Una cinquina all’insegna dei titoli da un’unica parola, quella del Premio Strega Poesia 2024 – o tutt’al più due, connesse al massimo da un morfema libero. DiscomparseEredità ed EstinzioneVivi al MondoNatura. Etichette secche per concetti densi, gomitate. Il libro a cui è dedicato questo episodio della nostra serie a tema Strega non fa eccezione: riporta un titolo sì semplicissimo, ma dalle suggestioni importanti. Paradiso (Garzanti, 2024) sembra ammiccare a Dante ma in verità racconta la concretezza di un paradiso rasoterra, a livello insomma della più terrena delle passeggiate. Una realtà tangibile eppure amplificata a piacimento dall’autore, che in questi versi ce ne fa dono, facendola forse esistere. Stefano Dal Bianco (Padova, 1961) vive in provincia di Siena, dove insegna Poetica e stilistica all’università. Si è occupato prevalentemente di Francesco Petrarca, Ludovico Ariosto, Andrea Zanzotto. Ha pubblicato La bella mano (Crocetti, 1991), Stanze del gusto cattivo (Guerini e associati, 1991), Ritorno a Planaval (Mondadori 2001, LietoColle, 2018), Prove di libertà (Mondadori, 2012). I suoi saggi di poetica sono raccolti in Distratti dal silenzio. Diario di poesia contemporanea (Quodlibet, 2019). Paradiso è la sua ultima raccolta.

Stefano Dal Bianco
Stefano Dal Bianco

Intervista al poeta Stefano Dal Bianco

Professore, buongiorno. Capita spesso – così sembra a me – che l’arte poetica venga associata al concetto di tormento, a un agitarsi dei sensi; Daniela Attanasio in una nostra intervista ha parlato di “pensiero che corre veloce e per questo si spezza“, Alda Merini scriveva che la poesia è “alacre come il fuoco“. La sua raccolta invece, anche rispetto ad altre sue opere (penso a Ritorno a Planaval o Prove di libertà) sembra risuonare come un sottovoce, un senso di finalmente riposare. Cos’è dunque per lei la poesia, è più scompiglio o più quiete?
Beh, direi che la poesia è quiete dopo lo scompiglio. Non viene fuori niente di buono quando si scrive in preda a una qualunque sentimento, sia negativo che positivo. Lo scompiglio va decantato, sempre. Sempre che il fine della scrittura sia quello di attingere a qualche cosa che vada oltre il vissuto individuale e che possa servire da ancoraggio o da rifugio per il solo sentimento che valga la pena di essere vissuto, che è il sentimento del nostro stare al mondo in quanto specie.

Lei è docente presso l’Università degli Studi di Siena; tiene corsi di Letteratura italiana e Linguistica italiana per la laurea triennale, e di Poetica e stilistica per il corso di laurea magistrale in Lettere Moderne. Cosa si porta, nei territori dei versi che scrive, del suo bagaglio accademico? Ha mai avuto la sensazione che i suoi studi fossero un limite per il Dal Bianco poeta?
In me lo studioso di letteratura è sempre stato al servizio del poeta. Non è stata una scelta facile, ma il trucco per salvarsi dalla letteratura è quello di studiare soltanto le cose che piacciono nel modo in cui più ci si sente a casa. Immergersi nello stile dei grandi autori è un’esperienza che auguro a tutti, perché non può che arricchirti, tanto sul piano umano che su quello della scrittura. Detto questo, bisogna rilevare che il mondo accademico tradizionalmente non vede di buon occhio gli scrittori in proprio. In altre parole, per qualche strano motivo, si tende a penalizzare chi ha una esperienza diretta della scrittura, come se le due cose fossero in contraddizione. La situazione in anni recenti sta un po’ cambiando, ma il mio percorso in università è stato molto duro. Da questo punto di vista l’Università di Siena è ancora un’isola felice: i miei colleghi mi accolgono per quello che sono, e così, a me sembra, anche gli studenti.

Stefano Dal Bianco
Stefano Dal Bianco

Tra i suoi numerosi spazi di ricerca la troviamo curatore delle poesie di Andrea Zanzotto presso Mondadori, metricista (con studi, per esempio, su Petrarca e Ariosto) e critico. Che differenza c’è tra il creare poesia e il lavorare su versi altrui?
Una differenza enorme. Le tue cognizioni di studioso vanno dimenticate del tutto se vuoi scrivere. Ciò non toglie che queste competenze, una volta interiorizzate, rientrino dalla finestra, del tutto fuori controllo. Ma la letteratura è esattamente questo: fondere la memoria involontaria della tradizione con ciò che più ti appartiene.

Con Paradiso è entrato nella cinquina dei finalisti al Premio Strega Poesia di quest’anno, insieme a Gian Maria Annovi, la già citata Daniela Attanasio, Roberto Cescon e Giovanna Frene. Ritiene che ci sia un punto in comune, o meglio un filo identitario che lega i cinque titoli selezionati dalla giuria?
La cosa bella di questa edizione dello Strega Poesia è che siamo tutti diversissimi. Presi in blocco mi sembra che riusciamo a dare un notevole spaccato delle varie anime della poesia italiana attuale.

E in ultima domanda, ci dica – se vuole -: come sta la poesia italiana, al momento? Qual è il suo stato di salute?
La poesia italiana sta benissimo, ed è, come è sempre stata, al top della produzione letteraria europea. Questo vale, come è ovvio che sia, per alcune singole voci eccezionali, voci che esistono in tutte le generazioni, anche fra i più giovani. Il problema vero è che, particolarmente dall’avvento della rete, che ha portato la poesia a livelli di diffusione impensabili prima, queste voci si perdono nella tendenziale assenza di filtri editoriali e critici, ed è molto difficile riconoscerle. Nei giovani mi preoccupano, è vero, due cose in particolare, che certo sono due facce della stessa medaglia: il fatto che si tende a scrivere non più in versi ma in prosette asettiche, per cui si chiama “poesia” quello che una volta sarebbe stata la “prosa di ricerca”, una categoria che non esiste quasi più a causa delle scelte del mercato editoriale. La seconda preoccupazione riguarda una certa radicale e addirittura programmatica assenza di “aura” in ciò che si scrive, come se la poesia fosse un puro fatto “di testa”: vince chi ragiona di più e meglio, ma la Poesia con la p maiuscola è ben altro: lo si dimentica troppo spesso.

Maria Oppo

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Se ritornare a quelle foglie secche
che fanno tappeto nel bosco di querce
fosse un’opzione quotidianamente ripetibile
non so se lo faremmo
perché l’abituale per natura
non ama l’abitudine
e per difesa cerca solo ciò che non ritorna.

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