Come sta cambiando il mestiere della traduzione dei libri? L’intervista
L'autrice e traduttrice femminista Laura Fontanella ci racconta come sta evolvendosi questo lavoro, tra spinte contrastanti di inglesismi e nazionalismi e nuove prospettive di genere. Con una costante: la scelta è sempre politica
“Per secoli, la traduzione è stata considerata un mero accessorio della Letteratura d’Autore, un automatismo, perciò il lavoro ideale da assegnare alle donne”. È politico, e non può non esserlo, il nuovo saggio Perdere il filo della traduttrice ed editor Laura Fontanella, uscito il 30 agosto per la collana Culture Radicali del Gruppo Ippolita. Creatrice del laboratorio Gender in Translation, che si occupa da quasi un decennio di traduzione politica e intersezionale, Fontanella ha realizzato un testo che parla di traduzione sì, ma anche di esperimenti di collettività, pratiche transfemministe, percorsi volti alla decolonialità e all’intersezionalità. Un universo, questo, in cui la traduzione può essere uno strumento per aprire gli occhi su di sé e sulle dinamiche del sistema mondo.
Il mestiere del tradurre. Intervista a Laura Fontanella
Come ti sei dedicata alla traduzione?
La mia storia inizia con il percorso universitario magistrale a Milano, dopo una triennale a Pavia. Sono stata studentessa dell’importante traduttrice Franca Cavagnoli, una delle grandi voci che possiamo vantare in Italia in ambito letterario, che poi avrei avuto come relatrice. In particolare, una lezione del suo corso fu illuminante, perché scoprii che la traduzione poteva essere femminista. Ero appena entrata nel gruppo attivista LGBTQIA+ Le lucciole: è scattato un interruttore: le due realtà non dovevano stare per forza separate.
Esistono scuole di traduzione? E quanto è politica la scelta?
Nella traduzione, tutto è politico. Quando traduciamo un testo, o ci interfacciamo in generale con qualcosa di creativo, entriamo in gioco noi, la persona che siamo, con tutte le sue criticità e i suoi pensieri, anche senza accorgercene. Quindi bisogna cercare di disinnescare questi bias attraverso un esercizio di autoanalisi, capendo cioè da dove si parla e attraverso quali lenti si guarda il mondo, così come a che classe, genere, razza si appartiene. Altrimenti il rischio è la cecità, anche se bonaria.
In che modo il lavoro di traduzione è un lavoro di cura? E come un lavoro femminista?
La traduzione è un lavoro di cura nel momento in cui tu chi lo fa si prende carico dell’autorialità, con tutte le cautele e le attenzioni del caso. E questo accade ogni volta che prendi in mano l’elaborato di un’altra persona, che sia un romanzo, un fumetto, un saggio, un manuale di gioco. Questo si interseca anche con l’elemento del transfemminismo, in cui si guarda al testo con molta attenzione anche per intercettare le oppressioni strutturali della società che possono tornare al suo interno. È la stessa cosa che ho visto nel mio laboratorio di traduzione, dove abbiamo imparato come gruppo a smontare delle dinamiche esterne poco sane, nutrendo l’ascolto e l’attenzione.
Quali le lezioni più importanti della pratica laboratoriale sperimentata con Gender in Translation?
Il laboratorio, che avviai otto anni fa con la Libreria Antigone di Milano dopo la fine dell’università, mi ha permesso di portare nella realtà quello che avevo imparato: avevo disperatamente bisogno di una dimensione materiale. Nella prima edizione, abbiamo provato a tradurre insieme cucendo una specie di Frankenstein per trovare la versione migliore possibile. Andammo avanti per mesi, tra narrativa, fumetti e poesia: piacque così tanto che fu adottato anche dalla Libreria delle Donne di Bologna e dall’Università Moro di Bari. E si va ancora avanti!
L’evoluzione della lingua, il dissenso e le correnti della traduzione
Cosa accade quando non “concordi” con il testo che hai davanti, da un punto di vista teorico o tecnico?
È un bel problema. Se conosci l’autore o l’autrice, e c’è un rapporto di fiducia, leggendo oltre le apparenze capisci che magari si tratta proprio di un errore in buona fede. Altre volte capita che ci siano testi che sono proprio opinabili nel senso più politico del termine. Poi, ovviamente, io lavoro con quello che conosco: se mi proponessero di tradurre un testo scritto da un personaggio fascista sicuramente direi di no: ma non accadrebbe mai, ogni casa editrice ha i suoi traduttori di riferimento.
Termini italiani, termini stranieri: come si pone l’ambiente della traduzione in questo senso?
Oggi secondo me ci sono due macro correnti: da una parte c’è l’importazione di termini dall’inglese, spesso dall’ambito liberale, è il caso dell’empowerment. D’altra parte, molte parole possono essere avvicinate e introdotte senza diventare ossessionati con “la nostra lingua nazionale”. Come spesso accade, il punto è creare delle alternative rispetto a questa polarizzazione forzosa.
Qual è un problema che non ti aspettavi di incontrare traducendo?
A livello di difficoltà, un testo diventa difficile quando tu non hai il background giusto per tradurlo. Per esempio, un testo per cui ho dovuto studiare è stato quello di Stacy Alaimo, Allo Scoperto, che parla di femminismo materialista: ho dovuto studiare Donna Haraway e Rosi Braidotti. Oppure, nella traduzione dei giochi di ruolo, capita che ci siano parti di regolistica rigida. In quel caso bisogna conoscere la comunità di persone giocanti, e capire che, per esempio, “make a test” (che si usa quando si deve tirare un dado) si deve tradurre con la frase idiomatica “effettuare un prova”. Se sei in una comunità, è facile saperlo, se non lo sei, fai fatica e devi imparare da zero, acconsentendo a traduzioni (magari amatoriali) che hanno dettato legge.
Quindi a volte si finisce per “preferire” una traduzione datata?
Se vediamo la prima, famosa traduzione italiana del Signore degli Anelli di Vittoria Alliata, c’erano una serie di problemi che poi hanno portato all’appropriazione fascista che vediamo oggi. Per carità Alliata per avere 19 anni fece anche un buon lavoro, ma quando Wu Ming e Ottavio Fatica hanno fatto una grande operazione di restituzione del fantasy all’ambiente di sinistra, tutti hanno storto il naso: la community può essere un ambiente molto rigido, persino quando c’è la restituzione culturale di un immaginario.
Giulia Giaume
Libri consigliati:
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati