Recensione dell’ultimo album dei Cure lanciato dagli studi della Universal Music Italia
Sono 16 anni che i Cure non fanno uscire un disco nuovo: lo abbiamo ascoltato in anteprima dai nuovi uffici del colosso discografico, nella zona dove sorgerà il villaggio olimpico di Milano-Cortina 2026. Ecco perché ci è piaciuto
In un piovoso pomeriggio d’inizio ottobre abbiamo avuto la possibilità di ascoltare in anteprima il nuovo attesissimo album dei Cure, Songs Of A Lost World, in uscita il 1° novembre. L’ascolto – blindatissimo – è avvenuto presso i nuovi uffici milanesi della Universal Music Italia, nei pressi dell’ex scalo ferroviario di Porta Romana, dove a breve sorgerà il villaggio olimpico di Milano-Cortina 2026.
La nuova sede della casa discografica Universal Music Italia
La nuova sede del colosso discografico si è trasferita su 7 piani di un edificio già esistente, ma completamente ristrutturato secondo scelte costruttive e tecniche attente alla sostenibilità. Rispetto ai vecchi locali, i nuovi spazi incorporano anche un vero e proprio studio di registrazione, oltre a due sale d’ascolto: una più piccola, dedicata agli ascolti in Dolby Atmos, e una più grande, che è stata destinata ai giornalisti. Tutti elettrizzati: del resto sono 16 anni che i Cure non fanno uscire un disco nuovo e il primo singolo, Alone – pubblicato il 26 settembre – ha fatto alzare di molto l’asticella delle aspettative.
Gli ascolti collettivi nella musica sono sempre più rari
Aggiungeteci il fatto che ormai questi ascolti collettivi sono sempre più rari: ognuno dei presenti faticava a ricordare quando è stata l’ultima volta che ha partecipato a qualcosa del genere. Una cosa è certa – e lo ha confermato anche Giacomo Vitali, Pr & Promotion Manager di Universal – l’evento a cui abbiamo partecipato è una rarità nelle rarità, perché oggi è molto difficile che le anteprime delle grandi star vengano concesse con così largo anticipo: siamo infatti a circa tre settimane dal lancio del disco, mentre, in genere, l’ascolto in anteprima (se viene concesso) avviene giusto qualche giorno prima dell’uscita ufficiale. Ma evidentemente Robert Smith, deus ex machina della band, nonché manager di se stesso, è piuttosto sicuro dell’album.
Il nuovo disco dei Cure è un ritorno al dark del passato
E fa bene. Il nuovo disco dei Cure è – forse per la prima volta, da molti anni a questa parte – un ritorno convincente ai fasti del passato più “dark” della band. Scordatevi quindi la spensieratezza di Friday I’m in Love, qui siamo nei territori lugubri di Bloodflowers (2000) e Disintegration (1989), ma senza il lato più pop di una Lovesong o il conforto malinconico di una Pictures Of You. Come suggerisce il titolo stesso, “Canzoni di un mondo perduto” è una passeggiata a ritroso nella memoria sfocata di un mondo che non c’è più, quando Smith era perso nelle foreste di Seventeen Seconds (1980), tra le nebbie grigie di Faith (1981) o nelle profondità del pozzo più nero di Pornography (1982), giusto per citare la trilogia dark “originale”. D’altronde, come aveva detto benissimo Mark Fisher nei suoi scritti, la cosa più interessante dei Cure era la malattia. E allora Songs Of a Lost World è la malattia dei Cure all’ultimo stadio, la sua accettazione e in un certo senso anche il suo superamento.
Il senso di fine imminente che pervade tutto il disco dei Cure
Ma non la sua guarigione: Robert Smith non sta più cercando una cura, come alla fine di Pornography – I must fight this sickness, find a cure – ma ne sta esperendo la fine. E lo sta facendo a modo suo, cioè in un mo(n)do diverso rispetto al passato, attraverso una luce nuova, o forse un nuovo buio. Smith non è più il ventenne nichilista di un tempo, oggi ha 65 anni e diversi lutti familiari alle spalle: nell’ultimo periodo ha affrontato la morte di entrambi i genitori e del fratello Richard, a cui è dedicata la straziante I Can Never Say Goodbye. Tutto il disco, in realtà, è pervaso da un senso di fine imminente, e non a caso proprio la parola “fine” ritorna più volte nei testi come un mantra che attraversa tutto l’album: dall’apertura di Alone (This is the end of every song that we sing) alla chiusura di Endsong (Left alone with nothing at the end of every song). D’altra parte, “non c’è niente che tu possa fare per cambiare la fine”, come sentenzia A Fragile Thing, secondo singolo estratto.
Il mood del disco: 8 brani e 50 minuti di rimpianti
La morte non incombe, è letteralmente qui, da quella reale e privata del fratello e dei genitori, a tutte le vittime delle guerre del pianeta (Warsong), fino a quella metaforica della propria identità e del proprio senso nel mondo attraverso il tempo (All I Ever Am). Le parole del poeta vittoriano Ernest Dowson e della sua poesia Dregs, sul finire dei suoi giorni –Il fuoco è spento, il calore ormai svanito – sono state una dichiarata fonte d’ispirazione per il singolo d’apertura, ma anche per il mood generale e l’atmosfera di tutto il disco: 8 brani e 50 minuti fatti di rimpianti, morte, solitudine, smarrimento e rassegnazione. Oltre quarant’anni fa, Pornography si apriva con una frase di un nichilismo sconcertante: “Non importa se moriremo tutti”. Oggi invece, sembra dirci Robert Smith, importa eccome, ma non possiamo farci niente lo stesso.
Fabrizio De Palma
Libri e cd consigliati:
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati