Il discorso di Alessandro Giuli? Dalla supercazzola si rischia la Corazzata Potemkin
Il discorso del neoministro della cultura ha innescato incomprensione, ilarità e meme oppure ammirazione. Ma anche molte riflessioni. Compresa questa dell’artista e docente Alfonso Leto che qui risponde alla posizione di Daniele Capra
Essendo ormai quasi spenti i motori della polemica sul discorso d’insediamento del neoministro alla cultura Alessandro Giuli, fuori dalla mischia vorrei dire la mia, con la marcia “in folle”, semplicemente da artista che ha trascorso molti anni nell’insegnamento, nella comunicazione dei linguaggi dell’arte alle più giovani generazioni.
Il discorso di Alessandro Giuli all’insediamento
Io penso che ciò che rende il discorso di Giuli per molti versi “indigeribile”, per quanto di correttissima grammatica, non è tanto il suo contenuto, quanto la gabbia linguistica in cui l’oratore ha costretto concetti e parole che, per la pretesa dinamica del suo programma ideale, perdono, via via che vengono enunciati, la loro vivacità politica, la loro incisività, il loro cromatismo comunicativo. E non è ciò un errore da poco per un intellettuale, un forgiatore di linguaggio, che siede sul più alto scranno di governo riservato alla Cultura.
Vero è che, a scorrere la nostra memoria, specie la più recente, sull’uso della comunicazione di certi ministri della cultura, rimarremmo sconfortati, sia per la forma che per i contenuti (oltre che per la fisiognomica), ma quando in quel dicastero si presenta un uomo che vanta (oltre che un aplomb ben configurato) una formazione professionale compatibile con l’incarico, ci aspetteremmo uno che il linguaggio lo libera, lo attrezza di strumenti comunicativi extraaccademici meno discriminatori sul piano della trasmissione del messaggio, senza per questo impoverirne la natura e le fonti.
Alessandro Giuli come Zygmunt Bauman?
Lo dico perché, avendo letto [e udito] con cura ampi stralci del discorso d’insediamento, vi ho trovato concetti di sociologia linguistica haute couture di cui si è già da tempo appropriato il “prêt-à-porter” nelle più diffuse forme di comunicazione (nel cinema, nella produzione televisiva, nella pubblicità, banalmente persino nella produzione visiva, audiovisiva e musicale). Che “il movimento vorticoso delle cose”, dice il ministro, stia trascinando con sé “i processi cognitivi delle persone” e queste a loro volta “mutano con essi”, sono concetti che ‘si cantano e si suonano’ già con tutti i codici comunicativi globali.
…E che siamo tutti chiamati ad un equilibrio di approccio tra “l’entusiasmo passivo” (…) “che rimuove i pericoli della ipertecnologizzazione” e “l’apocalittismo difensivo”, che rimpiange l’immagine del passato sono constatazioni che riproducono, con molti arzigogoli, quei già noti concetti emergenziali di “società liquida” e “glocalizzazione” che il filosofo di formazione marxista Zygmunt Bauman ha introdotto e discettato già oltre vent’anni fa.
In risposta a Daniele Capra su Artribune
Non è proprio come scrive Daniele Capra su Artribune, tacciando di ignoranza chiunque usi un registro ironico per criticare il linguaggio adottato dal ministro per il suo “manifesto” culturale.
C’è anche chi, come me, pensa che Giuli, nella sua gabbia lessicale, fa retrocedere quei contenuti diventati ormai quasi “di consumo culturale” alla loro fonte accademica senza nemmeno conferirvi la naturale eleganza della comunicazione che da un uomo elegante come lui ci si aspetterebbe. E c’è anche chi, avendo ben recepito il senso di quel discorso, finisce con lo smarrire il nesso culturale tra Giuli e il contesto politico che oggi, dopo la presidenza del Maxxi, lo fa salire di posizione.
Così confezionato, quel discorso delle grandi occasioni, è stato dall’oratore “utilizzato” nell’ambizioso mandato di riscattare i suoi referenti politici [FdI], dallo stigma della sottocultura: da qui -da questa sua performance filosofica- inizia l’avventura politica di Alessandro Giuli.
In questo programma si inseriscono i suoi studi gramsciani che ben si prestano per consegnare agli eredi del fascismo italiano lo scalpo del grande filosofo antifascista cofondatore del Partito comunista italiano, al quale il fascismo “vietò di pensare” (bella pretesa!).
Gli studi su Antonio Gramsci
Riconfigurare Gramsci: come fossero scaduti i suoi “diritti morali e politici ” (insieme a quelli editoriali) ad uso e consumo” di una politica in cerca dignità identitaria (ma che non intende pronunciare come propria la parola “antifascismo”) è l’ardua impresa virtuosa del ministro-intellettuale in cui quel suo discorso sembra voler essere il preludio.
Nell’attesa, rimaniamo fiduciosi che il ministro apra alla Nazione anche tutti gli altri registri linguistici e comunicativi a sua disposizione, altrimenti dalla sottoculturale “supercazzola” degli ignoranti si passerà alla “Corazzata Potemkin” di fantozziana memoria.
Quanto ai risultati del suo operare, nessun pregiudizio: c’è tempo per farsi un’idea.
Alfonso Leto
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